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martedì 31 gennaio 2012

Un piano di difesa contro gli asteroidi - Wired.it

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©Edizioni Condé Nast S.p.A. - P.zza Castello 27 - 20121

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La Terra è al centro di una grande pista di autoscontri: ogni anno capita che almeno un asteroide grande come un'auto entri nella nostra atmosfera. Niente di preoccupante, la roccia spaziale si incendia e per gli abitanti del pianeta è anche un bello spettacolo da vedere. Le cose iniziano a farsi più serie quando vicino a noi passano oggetti di ben altre dimensioni. È successo venerdì 27, quando un asteroide di 36 metri di diametro – il nome dice poco, 2012 BX34 – è sfrecciato a 60mila km da casa nostra (ancora più vicino di quello che ci ha sfiorati a novembre), mentre il 31 gennaio è il turno dell'asteroide Eros 433, che passerà a quasi 27 milioni di chilometri da noi, circa 70 volte la distanza che ci separa dalla Luna.

La vita sulla Terra è andata (e andrà) avanti come se nulla fosse, ma il timore che i giganti dello Spazio possano seguire rotte di collisione con il nostro pianeta ha iniziato a tormentare gli scienziati. Ma il punto è che nessuno sa ancora con precisione qual è il modo migliore per fermare la corsa di un asteroide. Trovare le giuste risposte a questo dilemma da film catastrofico spetterà al nuovo progetto NeoShield (dove Neo sta per Near Earth Objects) coordinato dall' Institute of Planetary Research di Berlino.

Come spiega la Bbc, si tratta di un'iniziativa internazionale che raccoglie Europa, Russia e Stati Uniti nell'impresa di individuare e valutare le migliori strategie di difesa spaziale contro la minaccia dei Neo. In pratica, si tratta di scegliere come trattare un asteroide in rotta di collisione: se accompagnarlo gentilmente verso un'altra strada o bombardarlo con un arsenale missilistico.

Il primo approccio prevede l'impiego di una sonda spaziale sentinella dotata di un raggio gravitazionale capace di agganciare un oggetto spaziale e trascinarlo su rotte che lascino incolume la Terra. Tuttavia, una soluzione del genere prevede che le sentinelle siano pronte a entrare in azione in qualsiasi momento, portandosi nelle vicinanze dei bersagli pericolosi.

Un'altra soluzione prevede invece di modificare la rotta dei colossi spaziali diretti verso la Terra urtandoli con qualcosa. Infatti, già nel 2005 con il concept della missione Don Quijote era stata tracciata l'ipotesi di deflettere gli asteroidi attraverso l'impatto di una navicella kamikaze, ma il progetto non ha ancora visto la luce.

L'ultima ipotesi prevede sempre di dirottare gli asteroidi colpendoli, ma questa volta con missili. Secondo gli esperti, le armi detonanti sarebbero le uniche risorse in grado di deflettere gli oggetti mastodontici che minacciano la Terra. Ma anche in questo caso, prima di sparare contro il primo asteroide che passa, gli scienziati devono essere sicuri di poter prevedere quali saranno gli effetti prodotti su rocce di diversa consistenza. Infatti, c'è sempre il rischio che il bersaglio rilasci frammenti pericolosi. Se non altro, diversamente da quanto potrebbero suggerire i cliché cinematografici, il progetto NeoShield non intende utilizzare armi nucleari.

Nei prossimi anni, gli scienziati terranno gli occhi ben puntati sulla Galassia nel tentativo di capire quante brutte sorprese dovremo aspettarci dai Neo. Secondo il Wise telescope della Nasa, esistono più di 19mila asteroidi di raggio compreso tra 0,1 e 1 km le cui rotte devono essere ancora ben definite.

(Credit per la foto: NASA/JPL-Caltech/T. Pyle (SSC))

Perché l’attività fisica ci fa bene - Wired.it

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DAILY WIRED NEWS SCIENZA
Perché l’attività fisica ci fa bene
Fare sport aumenta il riciclo cellulare, aiutando l’organismo ad adattarsi alle nuove richieste energetiche e nutrizionali. Lo studio su Nature
30 gennaio 2012 di Anna Lisa Bonfranceschi
Ce lo ripetono da quando siamo piccoli: l’ attività fisica fa bene alla salute. Aiuta a contenere i livelli di stress, a non ingrassare e ad allontanare lo spettro di malattie come il diabete. Ma se dovessimo spiegare cosa accade alle nostre cellule mentre corriamo al parco o durante la lezione di aerobica in palestra, avremmo poco da dire. Perché poco si conosce dei meccanismi molecolari messi in moto dall’attività fisica. Un gruppo di ricercatori guidati da Beth Levine della University of Texas Southwestern Medical Center di Dallas (Usa) è però riuscito a scoprire che i benefici dell’attività fisica proverrebbero, almeno in parte, da un’efficiente attività di riciclo cellulare.

Come spiegano gli scienziati dalle pagine di Nature, lo sport induce un particolare meccanismo biologico: l’ autofagia, il processo con cui la cellula divora alcune sue parti (come certi organelli), destinandone al riutilizzo i diversi componenti. In pratica si tratta di una forma di economia cellulare: in caso di necessità, si smonta qualcosa per trovargli un nuovo utilizzo. E l’autofagia è tanto un processo fisiologico, quindi normale, quanto un meccanismo innescato da condizioni patologiche, come sistema di difesa (per esempio contro cancro, infezioni, invecchiamento o insulino-resistenza, come è stato dimostrato nei topi).

Per capire se l’autofagia fosse legata anche all’ attività fisica, i ricercatori hanno allenato, sottoponendoli a intenso sforzo, alcuni topi in cui questo meccanismo fosse stato geneticamente compromesso, in cui cioè fosse alterato il gene BCL-2, un regolatore importante dell’autofagia (in realtà, in questi animali non risultava danneggiato il meccanismo in sé, ma solo quello indotto dall’esercizio fisico). Se, infatti, i topi normali mostrano un ritmo intenso di autofagia in seguito all’esercizio fisico (sia nei muscoli scheletrici sia in quello cardiaco), non accade lo stesso nei topi mutanti.

In questi animali inoltre, l’assenza del meccanismo è correlata a una serie di sintomi, come diminuita resistenza fisica e metabolismo del glucosio alterato. Ma non solo: senza riciclo cellulare, i topi sviluppano più facilmente intolleranza al glucosio se alimentati con una dieta ricca di grassi, una condizione prediabetica che invece l’esercizio fisico normalmente riesce a contrastare.

Secondo i ricercatori, l’effetto benefico dell’ autofagia sarebbe dovuto alla capacità delle cellule di adattarsi (attraverso il riciclo dei componenti cellulari) ai bisogni energetici e nutrizionali dell’organismo in seguito all’ attività fisica (per esempio regolando il metabolismo del glucosio). Qui, la via bio-molecolare legata alla proteina prodotta da BCL-2 sembra essere fondamentale, tanto da poter immaginare di utilizzarla in futuro nei trattamenti delle malattie metaboliche.

(Credit per la foto: Priscilla Gragg/Blend Images/Corbis)

Perché l'eGov non decolla - Wired.it

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DAILY WIRED NEWS INTERNET
Perché l'eGov non decolla
Il 100% dei servizi base delle amministrazioni pubbliche centrali sono online. Ma per quelle locali non si può dire altrettanto. I comuni, per esempio, sono completamente online solo nel 7% dei casi
- Bisogna alzare l'offerta di servizi
30 gennaio 2012 di Martina Pennisi
Primi in Europa con il 100% dei servizi pubblici di base disponibili online. A metterci sul gradino più alto del podio, seconda la Germania con il 90%, i dati della Commissione europea che fanno riferimento al completare in Rete un serie di operazioni. Dodici, nello specifico, quelle prese in considerazione, fra le quali figurano - per esempio - l'immatricolazione degli autoveicoli, le dichiarazioni indirizzate alla Polizia, l'accesso ai certificati e le iscrizioni nel settore istruzione, aspetto sul quale interviene ulteriormente il pacchetto Semplificazioni di recente approvazione dal governo Monti.

Agli occhi comunitari svettiamo dunque per una gestione digitale asciutta e libera da pratiche tradizionalmente dispendiose in termini di tempo e carta, risultato che rende ancor più ingombranti i 4 italiani su 10 che, secondo Eurostat, Internet non l'hanno mai usata e di cotanta digitalizzazione non se ne fanno niente. Ma questa è un'altra storia, per rendersi conto in maniera specifica delle possibilità offerte agli altri 6 si deve far riferimento ai dati Istat sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione nelle amministrazioni pubbliche locali.

Prendendo in considerazione i portali attivi, presenti nella quasi totalità delle amministrazioni in esame, i dati Istat dicono come solo il 7,3% dei Comuni (59% delle Regioni e 13,7% delle Province) permetta di avviare e concludere online l'intero iter per il servizio richiesto e il 14,9% (86,4% delle Regioni e 49% delle Province) consenta l'inoltro di modulistica online. Sono messi meglio nei servizi non interattivi: il 67,6% ha un'area per il download di modulistica (100% Regioni e 95% Province) e l'89,7% mette a disposizione informazioni (100% sia Regioni, sia Province). L'ambita possibilità di pagare online è cosa di non più del 13% delle amministrazioni locali. Irrisoria, inoltre, la percentuale (2,4%) delle realtà con applicazioni per raccogliere, archiviare e analizzare i dati ottenuti.

Che i servizi online a livello centrale siano garantiti è una buona notizia, ma l'eGovernment passa anche e soprattutto per le amministrazioni locali. E, se ci si stupisce che il 40 per cento degli italiani non abbia un accesso alla Rete, ci si dovrebbe anche rendere conto che l' offerta digitale di realtà come i Comuni è davvero povera.

(Credit per la foto: Getty Images)

La nuova corsa alla fusione fredda - Wired.it

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DAILY WIRED NEWS SCIENZA
La nuova corsa alla fusione fredda
Il generatore dell'italiano Andrea Rossi non è il solo a occupare il palcoscenico delle fonti di energia più controverse del mondo. Ecco chi gli contende il posto
30 gennaio 2012 di Lorenzo Mannella
Produrre enormi quantità di energia senza inquinare il pianeta. Sulla carta è un obiettivo molto nobile, ma nella realtà dei fatti e tutta un'altra cosa. Deve essere per questo che l' E-Cat di Andrea Rossi è ancora avvolto in una densa coltre di mistero. L'inventore italiano sembra aver scelto gli Stati Uniti per effettuare nuove prove con il suo generatore di vapore alimentato da una reazione nucleare tra nichel e idrogeno. Ma senza prove concrete, è difficile fidarsi. Ecco perché, come spiega Wired.uk, il panorama della fusione fredda degli ultimi decenni è nutrito di casi emblematici. La scarsa credibilità dei prototipi simili a E-Cat è dovuta al fatto che promettono di produrre molta più energia di quella necessaria a farli funzionare. Di fatto è un concetto del tutto impossibile, a meno che non si tirino in ballo i processi di fusione del nucleo che avvengono normalmente dentro le stelle a temperature di milioni di gradi. Nel 1989, gli elettrochimici Stanley Pons e Martin Fleischmann dissero di aver ottenuto gli stessi risultati della nostra stella in un comune laboratorio, ma furono immediatamente smentiti. Ma ancora oggi c'è chi non demorde.

E-Cat
L'invenzione di Andra Rossi è sicuramente la punta di diamante di chi crede che la fusione fredda possa entrare nelle nostre case in modo semplice e pulito. Dopo la prima serie di controversi esperimenti condotti a Bologna – i cui risultati non sono mai stati comprovati da esperti indipendenti – Rossi ha trasferito il proprio business negli States dove ha già messo in offerta i propri generatori da un Megawatt. Il prezzo? 1,5 milioni di dollari.

Le caratteristiche del suo generatore a fusione fredda farebbero quasi gridare al miracolo: con un chilogrammo di nichel E-Cat produrrebbe l'equivalente d'energia ottenuto dalla combustione di 200 tonnellate di petrolio, ma con zero emissioni di anidride carbonica. I numeri volano alti fino alle stelle, ed entro il 2013 il gruppo di Rossi promette di lanciare sul mercato anche una linea di generatori per la casa da 10 Kilowatt. In lista d'attesa ci sarebbero già 10mila persone.

Il giallo di Ampenergo
Già nel 2011, il generatore da un Megawatt sponsorizzato da Rossi aveva più volte fatto la spola tra il capannone sperimentale di Bologna e una azienda americana, la Ampenergo. Come si legge nel suo sito web, il ruolo della corporation consiste nel promuovere la commercializzazione di E-Cat nelle Americhe.

Tuttavia, vista da vicino, la compagnia non sembra altro che una scatola vuota costruita all'occorrenza. La pagina online, scarna di contenuti, è stata registrata solo nel dicembre 2010, e non ha ricevuto che un aggiornamento lo scorso giugno. Secondo i registri americani, poi, Ampenergo sarebbe tuttora inattiva.
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lunedì 30 gennaio 2012

Perché la terra continua a tremare? - Wired.it

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Mezza Italia ha tremato e probabilmente tremerà ancora nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Le scosse registrate prima a Verona, poi nel Reggiano e ora nel Parmense sono tutte legate, anche se indirettamente, dal movimento della placca Adriatica che spinge verso l’Europa (sono state registrate scosse anche in Svizzera e in Francia) e in questo movimento scorre sotto le Alpi, generando terremoti nella zona di Verona e poi verso il Friuli e le Prealpi. Scendendo in direzione Sud, invece, si piega gradualmente sotto l’ Appennino, inarcandosi.

“Ma attenzione a non fare confusione”, precisa Alessandro Amato, sismologo dell’ Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, al notiziario TerraScienza: “Pur trattandosi della stessa placca, i terremoti riguardano faglie diverse e non sono quindi collegabili fra loro in un rapporto di causa ed effetto”. Sarebbe infatti sbagliato considerare questi terremoti come parte di un unico sciame sismico. “Siamo infatti di fronte a tre sciami sismici diversi”, sottolinea il sismologo. Questo significa che le scosse di assestamento, quelle che in genere seguono terremoti medi o elevati, hanno come origine eventi diversi.

Il perché quest’ultima scossa di magnitudo 5.4 con epicentro nel Parmense è stata sentita da mezzo paese è presto detto. “Quando i terremoti - spiega Amato - sono così profondi, come quest’ultimo localizzato a circa 60 chilometri di profondità, il raggio di risentimento è più ampio". E’ come se un terremoto si propagasse a imbuto: più è grande la distanza dalla rottura più aumenta l’area di diffusione dell’energia. Questo spegherebbe il perché la scossa di qualche giorno fa nel Reggiano, che è avventuta a più di 30 chilometri di profondità, e quest’ultima nel Parmenese hanno gettato nel panico non poche città del Nord.

Per gli esperti però il fatto che la scossa venga avvertita a così grandi distanze può essere considerato un bene. “Fa più paura - dice Amato - ma attenua l’intensità della scossa e di conseguenza anche gli eventuali danni”. In questo modo si spiega in parte la differenza tra le conseguenze di questa scossa e quella che ha praticamente distrutto L’Aquila nel 2009 . “Il terremoto aquilano è avvenuto a circa 7 chilometri di profondità e ha avuto sicuramente un impatto più forte sulla superficie interessata”, dice il sismologo.

Ma quando si ha a che fare con i terremoti certezze ce ne sono ben poche. Sappiamo che l’area interessata da queste scosse è storicamente una zona a rischio medio, ma i terremoti possono raggiungere magnitudo anche più elevate di 5.4. “Stiamo già registrando scosse di assestamento - dice Amato - ma non possiamo assolutamente escludere scosse più forti nei prossimi giorni”.

Come, dove, quando e con che intensità è impossibile saperlo. “ Non abbiamo strumenti scientifici per fare previsioni di questo tipo”, precisa il sismologo. Ecco perché è più importante che mai fare molta attenzione alla prevenzione. Quella del Nord Italia è tipicamente molto buona. “ La gestione del rischio sismico - sottolinea Enzo Boschi, ex presidente dell'Ingv - in questa parte del nostro paese si è rivelata efficace. Evidentemente c'è un buon livello di monitoraggio, sorveglianza e controlli”.

Whisky, ora c'è un modo per farlo invecchiare velocemente - Wired.it

Orville Tyler è un chimico della South Carolina in pensione. Oltre alle provette e al laboratorio la sua grande passione è il whisky. Per questo motivo, appese le provette al chiodo, ha messo in piedi la Terresentia, un'azienda che si occupa di distillazione di alcolici con un'attitudine scientifica. Tyler è l'ideatore di una tecnologia che potrebbe radicalmente riscrivere il modo in cui il whisky - ma pure altri liquori - prende vita. La sua trovata si chiama Terrapure e promette di attuare in 12 ore un processo che normalmente richiede anni di paziente attesa. Grazie a questa trovata, basterà il trascorrere di una notte per aver pronto un bicchiere di whiskey di alta qualità, come se fosse stato lasciato nelle botti a invecchiare per 20 anni.

Si tratta, banalizzando, di una macchina del tempo: l'alcool giovane viene riposto in una stanza ossigenata dove viene sottoposto a energia ultrasonica ad alta intensità. Questo trattamento accelererebbe la reazione chimica di esterificazione, rendendo estremamente più veloci tutti i procedimenti necessari dopo la distillazione per rimovere i componenti chimici necessari per avere un buon whisky. E rendendo obsoleto il periodo di di invecchiamento nelle grandi botti.

Paul Adams di PopSci ha testato la macchina del tempo di Tyler inviandogli del whisky di quattro mesi, chiedendo di invecchiarlo con il suo metodo; a suo dire il gusto sarebbe cambiato, e il risultato sarebbe più che soddisfacente. Con questo metodo la produzione di alcolci potrebbe diventare molto più veloce e semplice e garantire una diminuzione dei prezzi (i whisky più buoni sono notoriamente quelli più invecchiati e, inevitabilmente, i più cososi), ma non si corre il rischio di snaturare una tecnia vecchia di secoli? Tyler è covinto del contrario: "il modo in cui gli alcolci vengono trattati è così inefficiente che ci siamo detti: vediamo se possiamo farci venire qualche idea migliore".

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Oswald Spengler (Blankenburg am Harz, 29 maggio 1880 – Monaco di Baviera, 8 maggio 1936) in questo suo Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale (edizione a cura di Rita Calabrese Conte, Margherita Cottone e Furio Jesi, traduzione di Julius Evola, introduzione di Stefano Zecchi, Longanesi, Milano, 2008) traccia un percorso che si sviluppa dal generalissimo al particolare. In qualche maniera il filosofo tedesco disegna una strada che dalla metafisica conduce ineluttabilmente verso un punto fisso. Il termine di partenza di tutto quanto l’argomentare è infatti una dualità, una distinzione, una frammentazione dello spazio, che si ha davanti, in due porzioni definite. Tale caratterizzazione, essendo generale al più alto grado, coinvolge direttamente quella parte della filosofia che - andando oltre gli elementi contingenti dell'esperienza sensibile - si occupa degli aspetti ritenuti più autentici e fondamentali della realtà secondo una prospettiva che risulta alla fine essere la più ampia ed universale possibile. Il punto d’arrivo di tutto il discorso, invece, riguarda (nelle parole dello stesso Spengler) un «fenomeno circoscritto spazialmente e temporalmente». Si cammina, dunque, dall’indeterminato al preciso. Dall’infinito ad un punto particolare.
Il disegno di questo viaggio è compiuto dall’autore attraverso sei tappe. Si passa, infatti, da un dualismo iniziale ad un dualismo intermedio a tre operazioni (rispettivamente: microscopica, contenutistica e geografica) all’enunciazione di una idea finale che è poi quella che dà il titolo al libro e che costituisce una forma di «prognosi della storia». Il tramonto dell’Occidente, in fondo, è solo questo: un’idea che viene lanciata nel momento infallibile in cui, rispetto ad una determinata «fase della storia», «noi attualmente stiamo vivendo il principio» di un processo in corso il quale, poi, «abbraccerà diversi secoli». Tenendo conto che l’opera, in due volumi, fu pubblicata col titolo Der Untergang des Abendlandes nell'estate del 1918 - per quanto riguarda il primo tomo - e revisionata successivamente nel 1922 (mentre il secondo volume apparve solo nel 1923 con il sottotitolo «Prospettive della storia del mondo»), possiamo tranquillamente affermare che tale tentativo di «predire il destino di una civiltà» non ha ancora trovato una sua conferma o una sua smentita. E questo per la ragione precisa che, noi uomini occidentali del secondo millennio, siamo ancora «all’interno» di una meccanica che, come detto appunto sopra, «abbraccerà diversi secoli». Quello che ci resta, nella nostra situazione, è dunque un’opera di scavo sempre più circostanziata verso un approdo definitivo. E questo approdo è appunto la tesi che l’autore di questo libro intende sostenere con tutte le sue forze e la sua abilità filosofica.
Il pregio dell’intera operazione è perciò quello di costituire, comunque, un punto di vista sulla storia dell’Occidente ovvero sull’«unica civiltà che oggi stia realizzandosi sul nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana». Il difetto principale è una certa prolissità ed un vero e proprio sovraccarico di dati e di fatti storici (alcuni buttati lì, all’impronta, senza nessuna ulteriore precisazione). Difetto non secondario è anche la mancata spiegazione di alcuni assunti e di alcuni passaggi (anche cruciali) del libro che rimangono così al puro stadio dell’enunciazione verbale e dell’affermazione senza riscontro nella realtà. Spengler parte dunque da un dualismo. Abbiamo infatti a che fare con «il mondo come storia compreso, intuìto e formulato nella sua antitesi rispetto al mondo come natura». In sostanza, storia e natura «designeranno due modi possibili di abbracciare la totalità del cosciente, del divenire e del divenuto, della vita vivente e della vita vissuta in una imagine del mondo unitaria, spiritualizzata ben ordinata del mondo - modi che si diversificano a seconda che nella sensazione indivisibile complessiva sia il divenire o il divenuto, la direzione o l’estensione (“tempo” o “spazio”) a predominare formativamente». Ovvero, infine, nei due termini predetti «si contrappongono le due possibilità estreme data a ogni uomo per ordinare in una imagine del mondo la realtà che lo circonda». È questa la base metafisica che fornisce la radice della dualità iniziale dalla quale si dipana tutto il discorso spengleriano.
Con un ulteriore specificazione l’autore de L’uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita introduce altri due elementi. Egli infatti afferma: «una realtà è natura se in essa il divenire è subordinato al divenuto, è storia se in essa il divenuto è subordinato al divenire». Intendendo sempre che «si possono distinguere il divenire e il divenuto come la forma nella quale esistono il fatto e il risultato della vita per l’essere desto». Sapendo altresì che «a base di ogni divenuto v’è sempre un divenire e la storia rappresenta una organizzazione dell’immagine del mondo in funzione del divenire, la storia è la forma originaria del mondo e la natura, quale meccanismo cosmico elaborato, è una forma tarda di esso realizzata a pieno solo dall’uomo di civiltà mature». Spengler in altri termini non esisterà a dire che ci troviamo di fronte alla pristina opposizione tra la vita (il divenire) e la morte (il divenuto). Ma il secondo dualismo (quello intermedio) - che interviene in questa fase dell’argomentazione del filosofo tedesco - è costituito da questa dichiarazione: «il mondo come natura e il mondo come storia hanno per correlativo due diversi modi del comprendere». Tali «modi» sono i seguenti: «ogni modo di comprendere il mondo può essere chiamato, in ultima analisi, una morfologia. La morfologia del meccanico e dell’esteso, scienza che scopre e coordina le leggi naturali e le relazioni causali, si chiama sistematica. La morfologia dell’organico, della storia e della vita, di tutto ciò che contiene in sé una direzione e un destino, si chiama fisiognomica». Dopo aver compiuto questo passo l’autore ha così pieno agio di portare a termine le sue tre separazioni.
La prima è quella da noi definita microscopica. «Dall’imagine di tutto il divenire mondiale nella successione possente dei suoi orizzonti quale l’abbraccia l’occhio faustiano, di tutto il divenire del cielo stellato, della superficie terrestre, degli esseri viventi e degli uomini consideriamo, ora, soltanto quella unità morfologica minima che corrisponde alla “storia mondiale” nel senso usuale, cioè alla storia, poco stimata dall’ultimo Goethe, dell’umanità superiore che a tutt’ora abbraccia circa seimila anni: senza porci il profondo problema dell’interna analogia che può esistere fra tutti questi aspetti del divenire. Ciò che dà senso e contenuto di storia a quel mondo fuggente di forme, e che finora era rimasto celato sotto la massa confusa delle “date” e dei “fatti” tangibili, è il fenomeno delle grandi civiltà». Abbiamo dunque isolato la «storia mondiale». Eccoci pronti al successivo stadio: la separazione contenutistica. Essa viene annunciata da Spengler con queste parole: «la civiltà è il fenomeno originario di ogni storia mondiale passata, presente e futura». Dalla diade metafisica di partenza (attraverso un dualismo intermedio ed una prima separazione microscopica) siamo arrivati adesso alla messa in evidenza del fenomeno delle «civiltà». Esse, specifica Spengler: «sono degli organismi. La storia mondiale è la loro biografia complessiva». E, in quanto «organismi», tali «civiltà» attraversano «le stesse fasi dell’individuo umano. Ognuna ha la sua fanciullezza, la sua gioventù, la sua età virile e la sua senilità». In definitiva ognuna ha una propria «durata» e un proprio «dato ritmo dello sviluppo». L’ulteriore separazione è quella geografica. All’interno del composito universo delle «civiltà», Spengler afferma di voler investigare «in che forma il destino della civiltà occidentale si compirà nel futuro». Per far questo, e per pervenire a quell’idea finale (che costituisce la proposta teorica di Spengler), l’autore ci informa che: «una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di tutte le sue interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione». La civiltà occidentale ha subito dunque proprio questo destino, è stata condotta lungo questa strada, ha raggiunto tale «stadio necessario». «Stadio», tra l’altro, che la «riguarda esclusivamente» e che «si distingue da altri consimili solo per la sua estensione». Il terreno adesso è pronto per l’idea finale. Spengler dice che la «civilizzazione» è «il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente». L’Occidente sta per tramontare perché esso è giunto al suo «inevitabile destino». Il suo culmine costituisce anche la sua fine (il suo «tramonto», la sua dissoluzione). L’idea di Spengler è che «inversione di tutti i valori: questo è il carattere più intimo di ogni civilizzazione. Si comincia col dare una diversa impronta a tutte le forme della preesistente civiltà, col capirle e con l’adoperarle in altro modo. Non si crea più, ci si limita a cambiare il senso di quel che esiste. In ciò sta l’aspetto negativo di tutte le epoche di tale tipo. Esse presuppongono come avvenuto l’atto propriamente creativo. Esse raccolgono la mera eredità di grandi realtà».
Il cammino è dunque realmente concluso. La via lungo la quale Spengler ci ha invitati a deambulare è stata ricca di avvenimenti e di incontri. Percorrendo sei figure metodologiche alla fine l’autore ha dimostrato il proprio assunto di partenza. E ci ha consegnato una «filosofia generale della storia» contrassegnata da un assolutismo relativo (la morale, la scienza, la stessa filosofia, il diritto hanno un senso assoluto all’interno delle rispettive «civiltà» di appartenenza ma non hanno alcun significato al di fuori di esse. In sostanza: i valori sono assoluti all’interno di una «civiltà», ma relativi solo a questa «civiltà») che è un vero e proprio esempio di esaltazione della fantasia ai danni della ragione. Egli stesso infatti dichiara: «se non secondo la sostanza, almeno secondo la forma, io distinguo nettamente la sensazione organica dalla sensazione meccanica del mondo, l’insieme delle forme da quello delle leggi, l’imagine o il simbolo dalla formula e dal sistema, ciò che è reale e irripetibile da ciò che è possibile e ricorrente, il fine di una immaginazione che ordina secondo un piano da quello di una esperienza utilitaristicamente analitica e, infine… il dominio del numero cronologico da quello del numero matematico». E la «storia» è, all’interno del suo pensiero, proprio tale dominio della fantasia. Cioè della libera interpretazione.

Gianfranco Cordì

Le rivelazioni di Porfirio - Il Sole 24 ORE

domenica 29 gennaio 2012

La grande avventura degli sviluppatori indipendenti - Wired.it

Continua dopo il video

La settimana scorsa, il Sundance Film Festival ha ospitato la prima mondiale di Indie Game: The Movie, documentario che (finalmente) mette sotto i riflettori uno dei retroscena più interessanti del mondo videoludico, quello degli sviluppatori indipendenti. Gli autori sono due filmmaker canadesi, James Swirsky e Lisanne Pajot, che pur essendo degli esordienti sono riusciti ad accaparrarsi un posto nella selezione ufficiale di uno degli appuntamenti cinematografici più importanti del pianeta.

Il trailer parla chiaro: il documentario ruota intorno alla storia di Edmund McMillen e Tommy Refenses (autori di Super Meat Boy) e su quella di Phil Fish, creatore di Fez. Attraverso le loro storie scopriamo cosa significa trascorrere anni a limare la propria creazione cercando il giusto equilibro tra narrazione e tecnologia. E ci rendiamo conto dell'incredibile pressione psicologica quando finalmente arriva la presentazione al pubblico, il momento in cui pochi minuti decidono tra il trionfo e l'oblio.

Parlando con wired.com, il documentarista James Swirsky ha sottolineato le similitudini fra Indie Game: The Movie e il mondo che racconta: "L'abbiamo realizzato allo stesso modo dei videogiochi indipendenti, considerato come l'abbiamo finanziato, come ci abbiamo lavorato e come ne abbiamo parlato col pubblico durante la realizzazione".

Il passaggio al Sundance Film Festival apre prospettive interessanti in termini di distribuzione e non è escluso che il documentario possa arrivare in qualche sala cinematografica. Swirsky e Pajot non abbandonano però la distribuzione fatta in casa e sul sito ufficiale del film è già possibile ordinarne una copia.

Giusto per aumentare l'interesse, ecco una clip in cui Phil Fish assiste non visto alle reazioni dei giocatori di fronte al suo Fez:

Oia Santorini - Santorini Greece

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Santorini Greece once had a volcanic cone. The top of the cone was blown off leaving a scattering of islands that are the top peaks of a vast underwater caldera. Around the caldera, sheer cliffs drop as much as 1,000 feet into the sea. The official name of this group of islands is Thera, which was revived in the 19th century. However, the name Santorini, bestowed on it by the Romans, still persists. The main and larger island is known as Santorini. The capital city of Fira is located here, and the other smaller islands are Therasia (with a few small villages and a handful of hotels and resorts) and the uninhabited islands of Christiana, Aspronisi, Palaia Kameni, and Nea Kameni. The depth of the sea in the central lagoon is 1,300 feet, making it safe for all shipping.

Red Beach

Red Beach

Beaches – Red Beach
Santorini does not have the most famous or most popular beaches in the Greek Islands, but there are a number of excellent ones, almost all located on the eastern side of the islands. Because of the unique volcanic geology of the islands, the beaches are almost all of colored sand or pebbles, with the color determined by which volcanic layer has been uncovered. The darker the sand color, the warmer the water. Several of the beaches are only accessible by boat and most of the rest are accessible by boat or by walking.

Red Beach is located near Akrotiri, and is famous for the soaring red cliff behind it. Erosion from these cliffs created the unique red sand. Other beaches include Kokkini, one of the most popular; Aspri (White Beach), one of the few with white sand; and Kamari, a black pebble beach with a pedestrianized shore road boasting a number of tavernas, cafes, shops, and bars.

Vlihada

Vlihada

Vlihada
On the southern part of the island, Vlihada Beach offers a long stretch of yellow sand and cliffs filled with caves caused by wind and erosion. The water here is quite calm, and there is a protected harbor often full of traditional fishing boats and yachts. This is the last beach in a row of beaches, and is therefore less crowded than the others.

Must See Sights

Pyrgos

Pyrgos

Pyrgos
Destroyed by the Thera eruption, the ancient city at Akrotiri is the most important Minoan site after Knossos on the island of Crete. The site itself, with wonderful frescoes and wall paintings, is fascinating. There is also a museum housing priceless ancient artifacts from the city. Pyrgos (which was the capital until 1800) is well worth a visit to see its 33 churches and the Monastery of Profitis Ilias that is now a museum showcasing a unique collection of icons.

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Vista panoramica de Roma desde la cupula de San Pedro

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Mount Everest-Monte Everest -360 panorama view from summit - Climbing Mt Everest - Nepal Trekking-panoramic photo from top of Mont Everest

Panorama of Grand Prismatic Pool at Yellostone, USA

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Budapest - vue panoramique depuis le Palais Royal | © gillesvidal - photographe

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Manhattan, New York, USA. Helicopter flight. Aerial photography by Oleg Gaponyuk - AIRPANO.RU

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L’inspiegabile mistero dello studio della filosofia | DIREGIOVANI.it

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L’interesse per la filosofia è ovunque cresciuto e i dibattiti di introduzione a questa di-sciplina si sono moltiplicati. Diversi motivi spiegano il fenomeno: la filosofia costituisce un an-tidoto contro l’ormai diffusa tendenza della cosiddetta vita «fast food», approntata dai mezzi di comunicazione di massa. Essa risponde al bisogno di capire e di ragionare, pone interroga-tivi sul destino di ciascuno di fronte al delinearsi di un avvenire incerto. Alla filosofia è asse-gnato l’interminabile compito di sciogliere nodi antichi e nuovi che bloccano o frenano lo svi-luppo dei pensieri. Come si possono quindi «scongelare» i pensieri troppo spesso statici? La filo-sofia può anche definirsi come una forma di sapere ad effetto ritardato, che richiede tempo per essere assimilata: ciò che sul suo conto noi giovani apprendiamo resta come «congelato», per cui si riesce a comprendere solo crescendo, a contatto con i problemi che, di volta in volta, incontriamo.
Fin da piccoli, raramente, ci hanno insegnato a riflettere su nozioni quali giustizia, veri-tà o bellezza. Quando iniziano a sorgere dubbi oppure si smette di credere alla correttezza di simili giudizi, sorge inevitabilmente l’esigenza di comprendere in modo più compiuto noi stessi e ciò che ci circonda. Aiutati dalla scuola, dagli amici, dai libri, dalla televisione o dai viaggi, ampliamo progressivamente le nostre conoscenze, accumulando, spesso senza render-cene conto, conoscenze frammentarie, casuali e mal digerite. La eventuale constatazione della nostra ignoranza conduce per lo più alla rassegnazione e all’indifferenza o, in generale, a uno scarso impegno nel contrastarla. Tale resa è inspiegabile, in quanto da piccoli non ci siamo fa-cilmente accontentati delle spiegazioni ricevute: dominati dallo stupore e dal timore di fronte alla realtà, abbiamo incalzato genitori e adulti con cascate di «perché». Crescendo, rischiamo di perdere la spinta verso ogni forma di conoscenza, di smarrire l’interesse per i grandi quesiti relativi all’esistenza.
Noi, in classe, siamo stati introdotti alla filosofia, proprio attraverso una delle più pro-fonde domande esistenziali: «Chi sono io?». A dispetto di quanto si possa credere, la maggior parte della classe, dopo discussioni e dibattiti, è giunta alla conclusione che qualsiasi risposta non possa essere racchiusa in una sola definizione. La filosofia, in quanto amore per il sapere, condivide con l’infanzia il continuo bisogno di comprendere, pertanto coltiva metodicamente questo atteggiamento, aiutando a conservare la volontà di capire, di non arrendersi di fronte all’evidenza e di prolungare la fase della meraviglia. La filosofia non richiede, però, soltanto un lungo tirocinio, ma anche e, soprattutto, una nuova ricerca personale. Lo studio serve a svi-luppare in noi alunni senso critico, in quanto induce a non accontentarsi subito di ciò che vie-ne insegnato. Tra le idee ricevute, sceglieremo così solo quelle conformi al nostro modo di pensare. Spesso, infatti, capiterà di non condividere il pensiero di qualche filosofo. Tra gli scienziati e fra noi giovani, si sente spesso parlare dell’inutilità della filosofia. Quali prove ven-gono prese a sostengo di questa opinione? Diversamente dalle scienze esatte o empiriche, si ri-tiene che dalla filosofia non sia derivato alcun progresso o accumulo di conoscenze. Come po-trebbe, in tal senso, la filosofia contribuire alla soluzione di problemi reali? Spesso si pensa troppo poco al fatto che il termine philo–sophia rinvia a uno specifico legame tra conoscenza ed amore. Insieme istituiscono una ricerca che deve rimanere aperta, consapevole di un biso-gno inesauribile di rispondere a rinnovate richieste di senso. La filosofia è, quindi, “utile” non perché apporti vantaggi immediati e tangibili, ma perché amplia i nostri orizzonti mentali e morali, trasformandoli. Di certo la filosofia è diversa dalla scienza o dalla matematica, dal momento che non si basa su osservazione ed esperimenti, ma esclusivamente sul pensiero. In che modo? Argomentando, elaborando idee, anche comuni, che tutti noi impieghiamo quoti-dianamente. Questa è la missione della filosofia già ben delineata da Platone. L’amore per il sapere nasce, dopo lunga frequentazione, sull’oggetto o argomento della ricerca. Nel momento in cui penetra nell’anima, il sapere diviene scintilla che nutre e illumina l’anima, quindi se stesso. E questa forma di sapere non può né essere detta né essere fissata dalla scrittura, per-ché è una conoscenza aperta.
E quindi la filosofia è o non è al servizio della vita?

Elisabetta Roccasalva III B
Liceo Scientifico Canicattini Bagni

Vivere 120 anni in pessima salute - Il Sole 24 ORE

filosofi anonimi | Faber Blog – La cultura raccontata da chi la fa

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filosofi anonimi
di Carlo Penco – sabato 28 gennaio 2012 - 23:51
Era Aristotele che era un genio o sono gli ingegneri che sono un po’ ignoranti? era la domanda che ci ponevamo noi filosofi a un convegno negli anni ’80 dove si presentava CYC, l’enorme base di conoscenza informatizzata. Gli ingegneri del CYC avevano individuato, intrecciando centinaia di migliaia di dati, alcune categorie generali: tempo, luogo, relazione, azione, situazione… Perbacco: avevano scoperto qualcosa come le categorie aristoteliche (…più o meno). Solo che Aristotele le aveva pensate ragionandoci sopra, gli ingegneri le avevano “estratte” empiricamente da un incrocio di dati.

[sopra: esempio di ontologia CYC - 2002]

Però, e non solo da CYC in poi, gli ingegneri si sono dedicati a fare ontologie, sia ontologie regionali, sia ontologie generali. Rubano il mestiere ai filosofi? Stanno facendo filosofia senza saperlo? Per Roberto Casati probabilmente sì, perché nelle loro discussioni – oltre a costruire sistemi che dovrebbero funzionare – cercano di mettersi d’accordo su come organizzare i concetti: fanno opera di “negoziazione concettuale”.

In Prima lezione di filosofia infatti Casati sostiene una tesi su cosa è la filosofia: la filosofia è l’attività di negoziazione concettuale (basata ovviamente sull’analisi costi/benefici) e il filosofo è un negoziatore concettuale. In un ambiente in cui il mercato è tutto – come ci insegnano i nostri economisti e i nostri primi ministri – l’idea che far filosofia sia “negoziare” sulla base di “costi e benefici” calza a pennello.

Poi vado a vedere gli esempi di negoziazione concettuale – che dovrebbero essere appunto esempi di filosofia: la discussione sulla definizione di matrimonio per la costituzione italiana, discussione che ha coinvolto Aldo Moro, Lelio Basso, Giorgio La Pira, Palmiro Togliatti, Giuseppe Dossetti e altri (una discussione divertente e istruttiva che ci riporta all’epoca dei grandi politici che ci hanno dato la costituzione repubblicana). E poi la discussione di avvocati in un tribunale statunitense sul problema se considerare un certo oggetto un’opera d’arte oppure un utensile (e quindi far pagare o meno una tassa per iportazione di utensili da cucina). Ecco i filosofi paradigmatici: politici e avvocati.

Mi è venuto così in mente il teologo Karl Rahner che sosteneva la tesi dei “cristiani anonimi”. Tutti sanno che ci sono persone buone e giuste al mondo, ma si dice “extra Ecclesia nulla salus” (fuori della Chiesa non c’è salvezza). Come possono salvarsi le persone buone e giuste? Ecco la risposta: queste persone buone e giuste sono cristiani, ma non lo sanno. E’ solo semplice ignoranza la loro: sono “cristiani anonimi”. Ma davvero, se lo sapessero, si considerebbero “cristiani”?

Allo stesso modo, si potrebbe dire, Lelio Basso, Palmiro Togliatti, Giuseppe Dossetti, che discutono su come definire il matrimonio nell’articolo 29 della Costituzione, e gli avvocati, che difendono o criticano l’idea che un certo oggetto rientri o non rientri nella categoria di oggetto artistico, sono tutti “filosofi anonimi”: fanno filosofia, ma non lo sanno. Ma davvero, se lo avessero saputo, si sarebbero considerati “filosofi”?

Certo Casati ha qualche ragione. Una cosa sono i filosofi di professione, un’altra tutte quelle persone che, all’interno della loro professione, “prendono le distanze dall’agire o operare nella professione e rivolgono a quanto stanno facendo uno sguardo filosofico” (p.61). Ma allo stesso modo sono ingegneri le persone che cercano soluzioni ingegneristiche a problemi di vario tipo (meccanici, civili, navali, ecc.); oppure siamo tutti architetti quando studiano come arredare un appartamento o immaginiamo come si dovrebbe ristrutturare una città, tutti chimici quando cerchiamo nuove combinazioni di ingredienti in cucina; tutti psicologi quando ragionano sugli altrui stati mentali, e tutti avvocati quando discutiamo di chi ha ragione o torto.

Ma quando si insegna ingegneria, si passa da un atteggiamento a un metodo, e così per le altre professioni o attività. E qual’è il metodo della filosofia? Non c’è e non ci può essere risponde Casati; le filosofie sono troppe e troppo diverse, e la ricerca di un metodo o di un canone è destinata al fallimento: ci sarebbe sempre qualcuno che non lo riconoscerebbe come tale. Lo metterebbe appunto in discussione (facendo appunto negoziazione concettuale).

Dummett insisteva sulla necessità di conoscere la logica, come parte della “cassetta degli attrezzi” del mestiere del filosofo. Casari dice che si può ragionare anche senza conoscere la logica (niente di più vero). Ma non si possono affrontare problemi complessi di ontologia, epistemologica, filosofia del linguaggio e della scienza senza conoscere la logica. E i problemi che si poneva Aristotele – e oggi si pongono gli ingegneri che costruiscono ontologie per il semantic web – non si possono affrontare per davvero senza conoscere la logica.

Casati propone una negoziazione concettuale: mettiamo d’accordo nel chiamare l’attività filosofica “negoziazione concettuale” come definizione necessaria a sufficiente per capire chi fa filosofia. In questo modo dà spazio a tutti, ermeneuti e fenomenologi, analitici e continentali, filosofi-logici e filosofi-poeti. E’ un tentativo immane, e si sa che più si allarga l’estensione più si restringe l’intensione, la quale diventa sempre più generale, magari necessaria ma non sufficiente.

Un problema riguarda i filosofi anonimi che, a differenza degli alcolisti anonimi – che sanno di essere alcolisti ma vogliono restare anonimi – non è sempre detto che si vogliano riconoscere nella categoria del “filosofo”, e forse, come gli alcolisti, vorrebbero smettere di esserlo o di essere considerati tali:

“Per Dio!” – potrebbe dire Dossetti – “non sono certo un filosofo, ma un vero politico, e ho difeso i valori cristiani”; “Per Bacco” – potrebbe fargli eco Togliatti – ”io non ho fatto filosofia, io ho fatto vera politica difendendo i valori della laicità”.

P.S. Casati comunque aiuta i docenti di filosofi (me compreso) che stimoleranno gli studenti a nuove professioni (mediatori culturali?) e comunque anche a uno stile: invece di lasciarsi travolgere dalla pratica del lavoro ogni tanto sospendere e ragionare su quello che si sta facendo. Magari con vantaggi per lo stesso lavoro.

sabato 28 gennaio 2012

Perché un'azienda non può ignorare la Rete - Wired.it

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DAILY WIRED NEWS INTERNET
Perché un'azienda non può ignorare la Rete
Internet e social media sono fondamentali per le imprese: come si è evoluto il loro rapporto negli anni? Ecco l'analisi di Vincenzo Cosenza
27 gennaio 2012 di Vincenzo Cosenza
Di seguito il primo capitolo di Social Media Roi, scritto da Vincenzo Cosenza per Apogeo

Il punto di partenza di questo libro è esplicito: la misurazione dell'universo dei social media in senso rigoroso e pratico. Rigoroso perché basato sulla misurazione quantitativa dei fenomeni; pratico, perché dalla teoria più alta si allontana per diventare insieme di azioni e best practice. Misurare, dunque. Certo misurare vuol dire valutare, ma ciascuna misura, presa da sola, si limita a un numero tanto preciso quanto inutile. Quindi per valutare in modo compiuto e utile bisogna comprendere altri elementi: lo scenario di riferimento, con uno sguardo prospettico, i mutamenti che ha contribuito a determinare, il terreno d’azione e le logiche di funzionamento. Analoga situazione si forma nel passaggio dalle valutazioni prese singolarmente al loro insieme, la strategia, distillata nelle azioni da compiere. Ecco perché dopo le valutazioni bisogna trovare il modo per far capire l’importanza di agire a chi in azienda ha il potere di decidere la partenza di un programma strategico di azione attraverso i social media.

Breve storia dell'incontro tra aziende e social media:
La storia dell'interesse dei manager aziendali per i social media si può retrodatare al periodo in cui i blog iniziarono a diventare un oggetto d'interesse per i mass media e il Web cominciò a rivelarsi come complesso sistema non solo di fruizione ( readable) ma anche di produzione dal basso ( writable). Fu in quel momento, fotografato dalla famosa "copertina specchio" del Time che decretava “YOU” persona dell'anno ( Time, volume 168, numero 26, dicembre, 2006), che iniziò a insinuarsi nei comunicatori più illuminati un tarlo, alimentato dalle prime agenzie di digital PR. Queste, intuendo la dirompente portata sociale e, naturalmente, commerciale del fenomeno, provarono a offrire nuovi servizi in grado di consentire alle aziende di comprendere quella magmatica realtà. I blogger iniziarono ad incuriosire e, a volte, impensierire per primi gli uomini delle pubbliche relazioni che non capivano né quanto fossero davvero importanti né come "catalogarli". Queste persone animate da grande passione, che con le proprie opinioni, potevano scalfire la granitica reputazione delle aziende erano un fenomeno da analizzare attentamente. Dal tentativo di comprensione si passò ben presto alla sperimentazione di inediti approcci alle relazioni pubbliche. Alcuni azzardarono i primi contatti con i blogger, inviando loro prodotti in cambio di un feedback sincero. In Italia lo fece per primo Antonio Tombolini col progetto "pesto ai blogger" (febbraio, 2006) sulla scia del successo dell'iniziativa di Stormhoek (maggio 2005) piccolo produttore di vini sudafricano, che con un investimento di 40.000 dollari in due anni riuscì a ottenere una visibilità tale da essere accolto dal colosso Tesco sui suoi scaffali.
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Perché la terra continua a tremare? - Wired.it

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Mezza Italia ha tremato e probabilmente tremerà ancora nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Le scosse registrate prima a Verona, poi nel Reggiano e ora nel Parmense sono tutte legate, anche se indirettamente, dal movimento della placca Adriatica che spinge verso l’Europa (sono state registrate scosse anche in Svizzera e in Francia) e in questo movimento scorre sotto le Alpi, generando terremoti nella zona di Verona e poi verso il Friuli e le Prealpi. Scendendo in direzione Sud, invece, si piega gradualmente sotto l’ Appennino, inarcandosi.

“Ma attenzione a non fare confusione”, precisa Alessandro Amato, sismologo dell’ Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, al notiziario TerraScienza: “Pur trattandosi della stessa placca, i terremoti riguardano faglie diverse e non sono quindi collegabili fra loro in un rapporto di causa ed effetto”. Sarebbe infatti sbagliato considerare questi terremoti come parte di un unico sciame sismico. “Siamo infatti di fronte a tre sciami sismici diversi”, sottolinea il sismologo. Questo significa che le scosse di assestamento, quelle che in genere seguono terremoti medi o elevati, hanno come origine eventi diversi.

Il perché quest’ultima scossa di magnitudo 5.4 con epicentro nel Parmense è stata sentita da mezzo paese è presto detto. “Quando i terremoti - spiega Amato - sono così profondi, come quest’ultimo localizzato a circa 60 chilometri di profondità, il raggio di risentimento è più ampio". E’ come se un terremoto si propagasse a imbuto: più è grande la distanza dalla rottura più aumenta l’area di diffusione dell’energia. Questo spegherebbe il perché la scossa di qualche giorno fa nel Reggiano, che è avventuta a più di 30 chilometri di profondità, e quest’ultima nel Parmenese hanno gettato nel panico non poche città del Nord.

Per gli esperti però il fatto che la scossa venga avvertita a così grandi distanze può essere considerato un bene. “Fa più paura - dice Amato - ma attenua l’intensità della scossa e di conseguenza anche gli eventuali danni”. In questo modo si spiega in parte la differenza tra le conseguenze di questa scossa e quella che ha praticamente distrutto L’Aquila nel 2009 . “Il terremoto aquilano è avvenuto a circa 7 chilometri di profondità e ha avuto sicuramente un impatto più forte sulla superficie interessata”, dice il sismologo.

Ma quando si ha a che fare con i terremoti certezze ce ne sono ben poche. Sappiamo che l’area interessata da queste scosse è storicamente una zona a rischio medio, ma i terremoti possono raggiungere magnitudo anche più elevate di 5.4. “Stiamo già registrando scosse di assestamento - dice Amato - ma non possiamo assolutamente escludere scosse più forti nei prossimi giorni”.

Come, dove, quando e con che intensità è impossibile saperlo. “ Non abbiamo strumenti scientifici per fare previsioni di questo tipo”, precisa il sismologo. Ecco perché è più importante che mai fare molta attenzione alla prevenzione. Quella del Nord Italia è tipicamente molto buona. “ La gestione del rischio sismico - sottolinea Enzo Boschi, ex presidente dell'Ingv - in questa parte del nostro paese si è rivelata efficace. Evidentemente c'è un buon livello di monitoraggio, sorveglianza e controlli”.

Facebook, i trucchi per riavere il vecchio layout - Wired.it

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L’ arrivo della Timeline per tutti è ormai ufficiale, e non potrete scappare. Non si può fermare il passaggio globale al diario, e prima o poi vi dovrete arrendere, ma nel frattempo quelli di Mashable hanno scovato dieci modi, estensioni per browser di facile installazione, per riavere alcuni pezzi del precedente layout del social network. Se usate Internet Explorer niente da fare, funzionano solo con Chrome e Firefox. E per sopravvivere all'arrivo della Timeline, comunque, bastano degli accorgimenti facili facili. E niente foto imbarazzanti del passato gireranno per la Rete, a patto che non vogliate, s'intende.

(Credit per la foto: birgerkind @ Flickr)

Agenda digitale? Una delusione - Wired.it

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Habemus Agenda digitale, più o meno. Anche questo venerdì il Consiglio dei ministri si è dato da fare e ha approvato il pacchetto Semplifica Italia, la scorsa settimana era stata la vota di quello dedicato alle liberalizzazioni. Fra le misure approvate, dopo sei ore di discussioni, anche quelle concernenti lo sviluppo digitale della Penisola. La palla passa in mano a una cabina di regia che avrà prima di tutto il compito di sbrogliare la matassa della banda larga. Un altro tavolo che, come scrivevamo questa mattina, ci si augura non crolli sotto il peso delle discussioni dei commensali. Il Governo manifesta inoltre l'intenzione di lavorare su open data, cloud computing e smart communities, più che smart citis vere e proprie " spazi virtuali in cui i cittadini possano scambiare opinioni, discutere dei problemi e, soprattutto, stimolare soluzioni condivise".

Chi si aspettava un calendario di interventi strutturati è rimasto deluso: si tratta, più che di un'Agenda, di una dichiarazione di intenti. Il Governo assicura che " grande spessore è stato dato all'agenda digitale" e che si tratta di " un obiettivo prioritario" per " aumentare l’efficienza dell’azione amministrativa, potenziare gli strumenti informatici di negoziazione, alleggerire le procedure di contrattazione per il mercato elettronico della pubblica amministrazione e incrementare la trasparenza, la regolarità e l’economicità della gestione dei contratti pubblici". Parole cariche di buone intenzioni, saranno i prossimi mesi a rivelare quante di queste, e soprattutto come, verranno rispettate. Sicuramente oggi ci si aspettava qualcosa di diverso.

Per ora, per trovare indicazioni precise al profumo di digitale bisogna sconfinare in altri campi. Previsti, per esempio, lo scambio telematico in tempo reale di certificati come cambio di residenza, matrimonio o nascita e la realizzazione di un portale unico, almeno in inglese e italiano, che consenta l'iscrizione a tutte le università e il reperimento dei dati sulle stesse. Sempre per ciò che concerne gli atenei, dal 2012-2013, verbalizzazioni e registrazioni degli esami avverranno esclusivamente con modalità informatiche. Si tratta di prese di posizione alla base delle quali deve esserci necessariamente una collegamento alla Rete diffuso e omogeneo in tutto il paese. E al tavolo - ops, cabina di regia - per la banda larga si torna.

Torna Cinesofia: Incontri di cinema e filosofia — Spaziocinema

Torna Cinesofia: Incontri di cinema e filosofia

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Molti film si pongono le stesse domande che nel corso dei secoli si è posta la filosofia. Attraverso sei film scelti tra i migliori della stagione le serate di CineSofia si propongono di coinvolgere il pubblico in un appassionante confronto sulle grandi domande. La serata sarà condotta da un critico cinematografico e da un filosofo, che insieme al pubblico cercheranno risposte plausibili alle domande sollevate dal film.

Venerdì 3 febbraio ore 20
Auditorium San Fedele
FAUST di Aleksander Sokurov
B. Fornara (critico cinematografico)
F. Carmagnola (docente di filosofia estetica)

Giovedì 9 febbraio ore 20
Apollo spazioCinema
A DANGEROUS METHOD di David Cronenberg
L. Barnabè (critico cinematografico)
P. Rizzi (psicanalista e docente universitario)

Venerdì 17 febbraio ore 20
Auditorium San Fedele
SOMEWHERE di Sofia Coppola
S. Colombo (critico cinematografico)
S. Petrosino (docente di semiotica)

Giovedì 23 febbraio ore 20
Apollo spazioCinema
THIS MUST BE THE PLACE di Paolo Sorrentino
G. Canova (docente di storia del cinema)
M. Bettetini (docente di filosofia estetica)

Venerdì 2 marzo ore 20
Auditorium San Fedele
THE TREE OF LIFE di Terence Malik
F. Vittorini (docente di letterature comparate)
R. Diodato (docente di filosofia estetica)

Giovedì 8 marzo ore 20
Apollo spazioCinema
MELANCHOLIA di Lars Von Trier
V. Rossini (direttore Milano Film Festival)
E. Locatelli (docente di estetica delle arti visive)

Ingresso € 7,00
Abbonamento a 6 ingressi (utilizzabile anche da due persone)
€ 27,00
Abbonamento a 6 ingressi per studenti (valido per una persona)
€ 21,00

info e prenotazioni:
Apollo spazioCinema
Galleria de Cristoforis 3
tel. 02780390
http://www.spaziocinema.info

Auditorium San Fedele
via Hoepli 3/b
tel. 02863521
http://www.sanfedele.net


Marramao offre una via d'uscita - Cadoinpiedi

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Una risposta rivoluzionaria. Una replica violenta e profonda tendente ad auspicare un rivolgimento che muti radicalmente uno determinato stato di cose. Contro il potere. Filosofia e scrittura (Bompiani, 2011) senza nessuna alternativa da lasciare all'illusione o alla congettura. Giacomo Marramao (Catanzaro, 18 ottobre 1946) non ha dubbi, non esita neanche un attimo, non si pone interrogativi di sorta. Tutt'altro. Egli è sicuro della propria opzione, egli è certo della propria proposta risolutiva rispetto alle grandi questioni che si legano alle dinamiche del potere (oggi come ieri). E nel portare al termine il suo discorso il filosofo calabrese non esita a fare intervenire due premi Nobel per la letteratura. Si tratta del narratore bulgaro Elias Canetti (che ha ottenuto il riconoscimento nel 1981) e della scrittrice romena Herta Müller (Nobel nel 2009). Ma non solo. Nell'intera economia del prezioso volumetto della «Bompiani» trovano pure il loro posto numerose considerazioni sulla società della globalizzazione, alcuni riferimenti alla genesi ed alle matrici del potere, della politica e della potenza ed illuminanti considerazioni sulla sorte della Sinistra attuale (indagata a partire da certe analisi del linguista e saggista Raffele Simone). Ma occorre andare con ordine. Alla fine il volume di Marramao costituisce un segnavia davvero rilevante all'interno del panorama attuale degli studi sulla contemporaneità anche se - è doveroso dirlo - pecca un po' di stringatezza e di mancato sviluppo di determinate disanime. Ciononostante, lo ripetiamo, ci troviamo di fronte ad un testo importante e che dovrebbe essere fatto oggetto di riferimento obbligato da parte delle forze progressiste che attraversano l'Occidente oltre che, più in generale, dell'uomo comune al quale, in ogni caso, il libro propriamente si rivolge. La speculazione di Giacomo Marramao si apre con la specificazione dei termini stessi del discorso che egli intende intraprendere. «Il potere non è una "risorsa scarsa", una cosa o una sostanza " a somma zero", ma una relazione la cui intensità varia con il variare dell'investimento simbolico esercitato nei diversi ambiti del sistema sociale». Il potere non è dunque definibile di per sé. Non è qualcosa che stia - su se stesso - in maniera autonoma, senza contatto con qualcos'altro, senza rapporto con qualcosa di eterogeneo ad esso. Ma, cos'è questo altro elemento? «Il paradosso del potere propriamente inteso consiste pertanto nel fatto che esso è tale solo se lo concepiamo non già come sostanza ma - appunto - come relazione con soggetti potenzialmente liberi: vale a dire, dotati del potere di agire in modo alternativo all'atto di subordinazione». Più precisamente: «un'implicazione radicale del paradosso del potere, messa generalmente in luce da Etienne de La Boetie [è che]... potere e libertà sono co-originari, discendono dalla medesima fonte. Proprio in quanto negazione della libertà, il potere la presuppone: non sarebbe pensabile se i "soggetti" su cui esso si esercita non fossero originariamente e potenzialmente liberi». Abbiamo dunque, immediatamente, la connessione tra potere e libertà: quest'ultima essendo quell'elemento «che sta a presupposto della relazione di potere» e che può essere definita come «la potenza». Chiediamoci ancora: qual è «il differenziale della potenza»? Ovvero: «la sua irriducibile ridondanza rispetto al potere»? Risponde lo stesso Marramao: esso è rappresentata da «un incremento non meramente quantitativo ma simbolico». C'è qualcosa di astratto nella libertà che la rende distintamente difforme dal potere. C'è qualcosa di paradigmatico che la fa distinguere da quel suo correlato che «è infatti una pulsione, ma anche una pulsazione. Il potere pulsa, come tutte la passioni originarie: come l'amore, come l'odio. E' un battito fatto di alternanze di sistole e diastole». Una volta stabiliti, in questo senso, i termini di tutto il discorso, Marramao ha così pieno agio di portare il suo saggio sul terreno della società a noi più prossima. «Il potere si presenta oggi nelle sembianze e nella struttura di un potere "mediacratico": dove l'espressione di calco greco-latino media-crazia indica appunto il fenomeno dell'accostamento e dell'ibridazione della sfera del potere con quella dei media». Questo potere «soft», meticcio, dominato da «nuove oligarchie elettroniche, da cui viene prendendo forma una nuova dimensione del potere», che «non può più essere ricercato nelle logiche del modello Westfalia, di quello che è stato chiamato da alcuni il "mito westfalico": nelle logiche di un rodine internazionale incentrato sulle relazioni pace/guerra, amicizia/inimicizia fra Stati-nazione sovrani territorialmente chiusi», questo soggetto - che è, come detto, solamente una «variabile dipendente» - agisce in maniera massiva e indifferenziata sui cittadini del Pianeta (strutturato dalle logiche della globalizzazione). E' a questo punto che si innesta il suggerimento di Marramao. Contro il potere che cosa si può escogitare oggi? Che cosa raccomandano Canetti e la Müller? Che cosa può inventarsi ancora la Sinistra internazionale? Quale rimedio è ancora possibile? Quale strada si può percorrere per affermare la propria libertà, la propria identità, la propria originaria costituzione? L'invito di Marramao a questo punto diventa davvero rivoluzionario. Insieme a Canetti egli prefigura una positiva iniezione di ragione. «Nulla appare oggi più pregnante della doppia ingiunzione racchiusa nella sua opera: andare alle radici, ai principi costitutivi del potere, formalizzarne le costanti, anziché inseguirne le molteplici ramificazioni e le interminabili mutazioni; non usare il concetto come alibi per evacuare il pensiero, non "schivare il concreto", ma - come si legge nel saggio Potere e sopravvivenza - volgersi a "quanto vi è di più vicino a noi e di più concreto». Tutta la radicalità del consiglio di Marramao sta proprio in questo: «andare a principi costitutivi» del potere. E' racchiuso in ciò tutto il senso definitivo che possiede il suo monito. In quale maniera si deve andare incontro a queste «costanti»? Per Canetti, dice ancora Marramao: «solo attraverso l'accesso alla concretezza delle esperienze - singolari e collettive - che di volta in volta si danno, lo scrittore è in grado di acquisire un'effettiva Verantwortung, "una responsabilità per la vita che si sta distruggendo", capace di andare oltre un mero atteggiamento di pietas per gli altri». Occorre muoversi - per andare Contro il potere - «dal concreto, dalla prossimità all'esperienza». O, per Herta Müller, «dalle quotidiane "bassure" della vita quotidiana e della sua "normale" derelizione». In definitiva bisogna viaggiare, oggi, sulle vie della realtà, della pratica, dell'effettività e dell'effettualità. Il senso di tutto il discorso di Marramao è che si deve contrapporre al potere una considerazione obiettiva delle cose, un ritorno ai veri problemi della vita, un contatto con «i piedi per terra» sul suolo della tangibilità. Ciò ha un riscontro diretto proprio nelle dinamiche del potere attuale. Del potere ai tempi della globalizzazione. Infatti «la nostra epoca, che esibisce a se stessa il proprio tempo come un succedersi precipitoso di molteplici e disparate festività, è in realtà "un'epoca senza festa": un'epoca - verrebbe da aggiungere con una suggestione spinoziana desunta dal dibattito attuale - delle "passioni tristi", segnata dal fenomeno della doppia contrazione di memoria e aspettativa, dall'implosione dell'avvenire in "futuro passato" e dalla conseguente eterizzazione del presente». Viviamo in un periodo di tempo in cui il potere fa leva «su un complesso dispositivo di messaggi subliminali centrati - secondo un Leitmotiv del dibattito filosofico attuale, riscontrabile soprattutto in un autore come Slavoj Žižek ma anticipato dalle analisi di Jean Baudrillard - sull'incentivazione al godimento». Se questi sono i mezzi che ha a disposizione il potere moderno, è inevitabile allora che un vero e proprio recupero della realtà costituisce una contromisura che - politico o cittadino - chiunque dovrebbe mettere in atto. Questo recupero della realtà è dunque una perfetta iniezione di ragione nel mondo in cui le direttrici principali sembrano improntate a sistemi di spettacolarizzazione, di edonismo sfrenato, di ricerca compulsiva dell'appagamento in risorse transitorie. In definitiva occorre dire a gran voce, secondo Marramao: il mondo non è solamente la palestra diafana del nostro godimento individuale. La vita non è fatta solo per conseguire piccole gioie e microscopiche soddisfazioni incapsulate in beni di consumo. Occorre tornare alla realtà. Alla contingenza. Alla situazione oggettiva in cui ci troviamo. La proposta di Giacomo Marramao - con questa attenzione centrata sulla ragione lucida investigatrice del reale - non potrebbe essere più rivoluzionaria di come effettivamente essa è - specie in un momento storico come quello che stiamo vivendo. Si tratta di una proposta che va direttamente e senza mezzi termini Contro il potere. Ma c'è di più. Si tratta, infatti, anche di una indicazione che ha a che fare con la «catastrofe». «A differenza dell'apocalisse, di ogni rivelazione o disvelamento finale, la catastrofe rimanda a un mutamento di forma: o per adottare un lemma caro a Canetti, a una metemorfosi». Oggi «lo scrittore è chiamato a custodire la metamorfosi: davanti agli odierni imperativi di un "mondo improntato sull'efficienza e sulla specializzazione", dominato da una "angusta tensione per la linearità"». In quale modo lo scrittore (o meglio: chiunque si ribelli al potere) può porre in atto questa sua missione? Risponde Marramao: «ma un tale atto di riappropriazione - letteralmente catastrofico per gli attuali assetti della Civiltà - non può aver luogo se non prendendo congedo dalle vette del concetto e immedesimandosi nel concreto dell'esperienza». Ecco che il ritorno alla realtà, unica risposta possibile allo straripamento del potere - diventa adesso un atto pienamente «catastrofico». Ed ecco che la proposta di Marramao, appunto perché intrinsecamente catastrofica, presenta quelle linee di frattura e quello statuto di cataclisma storico che sono propri, appunto, solo della rivoluzione. E la Sinistra? Se è vero che «la Neodestra, dunque, altro non è l'espressione mobile e cangiante di quella nuova forma, tanto più totalizzante quanto più sottile, di Potere designata da Simone con l'appellativo "posthobbesiano" di Mostro Mite». La Neodestra (in crescente espansione di consensi) è perciò «l'espressione» del potere contemporaneo. Quello stesso potere che esercitava le proprie funzioni attraverso «l'incentivazione al godimento». Quello stesso potere al quale il nostro autore aveva risposto con delle iniezioni di ragione. Cosa resta allora da fare alla Sinistra? Risponde Giacomo Marramao: «si tratta... di invertire quella (antichissima) colonizzazione del desiderio che, facendo leva su una frattura tra dimensione materiale e dimensione simbolica, ha portato a una resistibile ascesa del disegno egemonico della Neodestra». In una parola: «invertire [la]... colonizzazione del desiderio» vuol dire farsi interpreti di quel ritorno alla realtà che Marramao auspica quale rimedio ai mali del potere attuale. Lo «scopo del libro» è dunque raggiunto. Questo scopo era «la dimostrazione di come solo una restituzione scabra e disincantata dei meccanismi di produzione e riproduzione del potere a partire dai concreti contesti dell'esperienza... sia in grado di delineare linee di frattura talmente profonde da sovvertirne la logica». Marramao, grande sovvertitore, ha alla fine dimostrato proprio questo. Consegnandoci un libro di utilità quasi civica oltre che di sopravvivenza quotidiana nei meandri, ancora non del tutto esplorati e percorsi, di questo inizio di Terzo Millennio.

L'Opinione delle Libertá

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“La crisi della nostra epoca (non mi stancherò mai di ripeterlo) è la crisi della capacità di ascoltare”: con queste parole il grande filosofo torinese Enrico Castelli Gattinara concludeva una lettera ad Ernesto Grassi, già nel lontano aprile 1959. A distanza di oltre mezzo secolo nulla è cambiato: se il Logos, la Parola è la Rivelazione di Dio nella Storia, è solo in una ritrovata capacità di ascolto, in un silenzio che diventa il centro dell’esistenza, che il cristianesimo trova la propria essenza, la sua ragione di attualità, anche nel Terzo Millennio.
È grazie al lavoro generoso e continuo di don Raffaele Pettenuzzo, direttore della collana “Scienze umane, filosofia e teologia” dello Studio Teologico del Seminario Arcivescovile di Benevento (dove insegna teologia e filosofia), edita dalla Libreria Editrice Vaticana, che ci viene riproposto il pensiero di questo filosofo la cui attività ha illuminato il XX secolo, diffondendo la riflessione filosofica italiana a livello mondiale.
Qualche settimana fa è stato presentato a Roma il terzo volume dell’excursus teoretico su Enrico Castelli, che segue a distanza di poco più di un anno i primi de: “Il demoniaco nell’arte fiamminga” e “La filosofia dell’arte sacra e il tempo perduto”.
Il nuovo libro è intitolato: “Perdita e ritorno della testimonianza”. La prima presentazione di questo libro in realtà è avvenuta già lo scorso novembre presso la Biblioteca del Senato. Non si tratta certamente di un libro di facile lettura: il pensiero di Castelli si esprimeva spesso per aforismi e paradossi, e farne una esposizione sistematica seguendone cronologicamente i percorsi, mettendolo contemporaneamente a confronto con l’esposizione del pensiero dei grandi filosofi e teologi d’oltralpe con cui Castelli ha intrattenuto diuturni e fecondi rapporti per la durata dell’intera vita, rende il compito ancora meno agevole.
In questo terzo volume, più che nei due precedenti, l’Autore si sofferma sullo sviluppo biografico dell’opera di Castelli, perché la riflessione sulla testimonianza costituisce il nucleo più attuale del pensiero castelliano, per comprendere la portata del quale non è possibile prescindere dal dato biografico.
Soprattutto, il rapporto tra mito e testimonianza, demitizzazione, sacro e profano, storia sacra e storia del sacro, tempo della tecnica (si badi bene: della “tecnica”, non della “scienza”. E questa profonda differenza concettuale sia Castelli che don Pettenuzzo la spiegano molto bene) e tempo dell’ascolto non sarebbero pienamente comprensibili nella loro portata se non messi in rapporto con i congressi nazionali ed internazionali cui Castelli ha partecipato e soprattutto con i Congressi Internazionali di Studi Umanistici prima, e con i “Colloqui Romani” organizzati da lui fino alla sua morte, avvenuta nel 1977.
È particolarmente significativo che il pensiero di Castelli ci venga riproposto oggi, che più che mai il nostro mondo pare avere smarrito del tutto il senso profondo del divino. Nel mondo d’oggi professare una fede sembra sempre più un residuo del passato, e d’altra parte la nostra è anche l’epoca dei fondamentalismi religiosi da un lato, e del proliferare delle sètte dall’altro: una fra le miriadi di contraddizioni che Castelli aveva già individuato e le cui conseguenze nefaste aveva previsto.
La profondità del pensiero di Castelli – che lo mise a contatto con personaggi dello spessore di Papa Pio XII, Papa Paolo VI, Jacques Maritain, Ugo Spirito, per citare solo alcuni tra i molti - ci deve aiutare a ritrovare il senso autentico del suo messaggio principale, che don Raffaele Pettenuzzo sottolinea con grande precisione ed incisività: la nostra società, quella della tecnica il cui frastuono copre il kerygma, è vittima di un processo di laicizzazione male intesa, a causa del quale è aumentato il carico di angoscia e vuoto interiore, ma è soprattutto venuta meno la capacità di ascolto.
E’ questa una società da demitizzare a sua volta, quindi. Perché, come sottolinea nell’Introduzione al volume Suor Myriam Castelli, “La storia è ridotta a storia degli uomini e delle loro conquiste esteriori, mai storia dell’umanità, ossia dello spirito umano”.
Alla riscoperta del rapporto vero dell’uomo con il sacro, alla ricerca di una filosofia che consenta di riconciliare l’epoca attuale con le sue radici, individuate nell’umanesimo medievale (ad essa molto più vicino che non la filosofia dell’età moderna, colpevole di avere cercato a tutti i costi la conclusione razionale, dove il riferimento è soprattutto ad un razionalismo male inteso), di dare una risposta all’interrogativo se l’uomo attuale possa salvarsi, e nel tentativo di neutralizzare il “sonno” che addormentale coscienze per non provare sofferenza, l’excursus castelliano ad opera di don Pettenuzzo si impone con forza e ci provoca con decisione a riflettere sul rapporto tra fede e filosofia, con originalità e, soprattutto, senza infingimenti.

È la filosofia che pensa alla fine - Europa

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Se non si attraversa con attenzione e per intero Via di qua (Bollati Boringhieri), l’ultimo saggio di Umberto Curi dedicato al tema, per definizione inesauribile, della morte, questo libro può apparire come una riproposizione di tutta la serie, assai vasta per la verità, dei motivi che caratterizzano la riflessione di questo pensatore: l’originaria condizione duale dell’essere, l’amore, la filosofia classica e in particolare Platone, l’attenzione al linguaggio, il mito classico letto nella sua profondità filosofica, il libero confronto col cristianesimo e con la teologia cristiana, la riflessione sulla psicanalisi e sul magistero di Freud.
È un’impressione superficiale: questo saggio è ancora una volta il tentativo di «filosofare rettamente», di saggiare le possibilità dell’essere a partire da quello che è il suo limite primo e invalicabile, ovvero la morte. Quid est mortis? È questa la domanda cardine da cui si dipana il percorso di riflessione di Curi. Una domanda cui vien data subito risposta: la morte, superando Seneca che risponde aut finis aut transitus, è per Curi et finis et transitus. Fine e passaggio, insieme, consustanziali.
Quindi il percorso: dall’esperienza di Alcesti, nel mito reso in forma drammatica da Euripide, e poi, restando nel contesto simbolico del mito di Alcesti che accetta di morire al posto di Admeto, il ruolo di Apollo e Thanatos e la consapevolezza che: «occorre sapere morire...Ma che si può soprattutto imparare a morire».
Imparare a morire: ecco il rebus che ogni uomo deve affrontare per vivere pienamente la propria vita. Ed affrontarlo significa sgombrare il campo dalle illusioni che impediscono all’uomo di capire che è proprio nella morte che è racchiuso il senso stesso della vita. Dai presunti doni di Prometeo, le arti, la politica, la speranza (elpis, il doron/dolos per eccellenza, il vero sacrilegio di Prometeo), al senso stesso della vicenda prometeica: «attraverso il paradigma di Prometeo, gli uomini hanno imparato l’esito comunque tragico non solo della vicenda specifica del titano, ma di qualunque titanismo, di qualunque sfida rivolta al destino che incombe, di qualunque tentativo di sconfiggere la morte. Nella vanità di ogni attitudine affettiva nei confronti della morte, nella mutua elisione dell’amore e dell’odio rivolto verso di essa, nel fallimento della titanica impresa di cancellarla, gli uomini hanno conquistato la possibilità di riconoscere la morte come quel limite, in ogni caso invalicabile, senza il quale la vita stessa perderebbe il suo peculiare significato».
È in quest’ottica che vengono ripresi anche il senso della poesia ispirata degli aedi e della memoria, che riportano la dimensione umana oltre la dimensione temporale del susseguirsi lineare degli eventi (chronos) per situarla in quella dimensione che i greci chiamavano aiòn, ovvero un sempre-essente: «...la memoria come mnemosyne consente di accedere ad una forma temporale che è la negazione del tempo umano, la cui qualità è quella di una presenza stabile e distruttiva, e cioè quella stessa potenza che presiede alla dimenticanza e alla morte. L’accesso al tempo come aiòn, come dimensione delle origini e come perennità, può invece aiutare a mettere tra parentesi la morte. Svolgendo una funzione simile a quella della prometeica elpis».
E non è tutto, perché sempre in quest’ottica “prometeica”, seppure al di fuori da qualunque soggezione divina, si possono inquadrare la meléte thanatou, ovvero l’esercizio per affrontare la morte predisposto da Anassagora, poi l’arte del sofista Antifonte che, a Corinto, insegnava a pagamento ad affrontare i dolori per mezzo delle parole (techne alypias), per giungere alla concezione platonica del filosofare rettamente, come modo migliore per prendersi cura di se stessi e «unico antidoto efficace contro l’orrenda maschera di Gorgo».
E il cerchio si chiude: ecco che la meditazione rilkiana sul sarcofago di Villa Albani con effigiata la vicenda di Alcesti, la rilettura del mito di Orfeo ed Euridice, la riflessione sui racconti di Kafka sul tema della morte (Il cacciatore Gracco, Odradek, La partenza, Prometeo, Il silenzio delle Sirene, Il ponte), ripercorrono, scandagliando e approfondendo, i nuclei tematici precedentemente trattati.
Fino all’impennata finale legata al racconto biblico di Abramo che riceve l’ordine di sacrificare il figlio Isacco: nell’attraversare le ragioni della fede cristiana, Curi incontra il pensiero di Kierkegaard anzitutto, e poi San Paolo e Nietzesche e Derrida: si tratta di un paradosso che redime nella responsabilità, che introduce al paradosso pasquale e situa la morte in una dimensione nuova e inaudita, ovvero come autentico e definitivo dies natalis dell’essere.
Paolo Randazzo

venerdì 27 gennaio 2012

Ah! Il latino! | Faber Blog – La cultura raccontata da chi la fa

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Ah! Il latino!
di Carlo Penco – giovedì 26 gennaio 2012 - 18:47
Il tecnico della calderina è arrivato con le sue borse e i suoi attrezzi, compreso l’analizzatore di combustione per l’analisi dei fumi (non puoi fare l’analisi dei fumi “a occhio”). A vederlo lavorare mi è venuta in mente la conclusione della Base logica della Metafisica di Michael Dummett, riportata anche su IlSole24ore del 17/11/1996, ripresa anche in un recente ricordo di Dummett sul IlSole24ore dell’8/1/2012. La riporto ancora una volta:

“La filosofia è dopo tutto un’arte, come saper riparare le tubature.Molti anni fa un idraulico, venuto a casa nostra per fare una riparazione urgente che mia moglie aveva invano cercato di fare da sola, mi disse: «Ma non vorrà mica farla a mani nude, come la sua gentile signora qui presente?». La filosofia mi interesserebbe assai meno se non ritenessi che alle grandi questioni metafisiche si possano infine trovare risposte capaci di riscuotere un consenso generale; non avrei però scritto La Base logica della metafisica se non fossi anche convinto che è meglio non cimentarvisi a mani nude.”

VISIONE: Questa è una visione “classica”; risale almeno ad Aristotele per cui non si può fare metafisica se non si è studiato prima logica, ed è coerente con tutta la filosofia del medioevo, con la differenza che la logica medievale era più o meno quella di Aristotele, mentre la logica di oggi è quella di Frege e successori.

ESAMI E CHIACCHIERE: A Genova un esame di logica è obbligatorio al primo anno del triennio di filosofia. Questa scelta mi è piaciuta molto anche se non condivisa da tutte le Università italiane. In effetti la filosofia è ritenuta, in molti contesti, un mestiere che consiste in “affabulare”: esprimere intuizioni un po’ vaghe sul senso della vita, persuadere l’uditorio a ragionare sulla profondità dell’essere, che per lo più dovrebbe coincidere con la profondità del professore che ne parla.

PROFONDITA’: La “profondità”? La profondità richiama la capacità di scandagliare il fondo del mare, con certi strumenti per poterci arrivare. Normalmente una persona “profonda” è quella che sa capire un numero sempre maggiore di conseguenze di quanto viene detto e che sfugge a prima vista. Quindi la profondità corrisponde alla capacità di fare inferenze corrette, in conclusione la profondità ha uno strettissimo legame con la padronanza delle capacità logiche.

ANOMALIA ITALIANA? Qui Umberto Eco, con la sua enorme influenza, forse ha fatto un danno alla filosofia (pur non facendo danno a se stesso, avendola studiata a suo tempo, quantomeno con i suoi studi su Tommaso d’Aquino): per Eco la logica non è che uno dei tanti sistemi semiotici.
Forse ha ragione. Ma così si sono moltiplicati gli insegnamenti di tutti i tipi di semiotica nell’Università italiana. E’ un’anomalia italiana, che – ammettiamolo – ha del genio. E poi è più divertente studiare la semiotica della cucina orientale che non il calcolo dei predicati del primo ordine. Però la definizione “standard” di semiotica è sintassi + semantica + pragmatica, il che la rende appunto uno studio dei principali aspetti della logica (inclusa la logica del linguaggio naturale, ove la pragmatica ha grande rilievo). Ma cosa dobbiamo pensare? Che la logica è la semiotica del linguaggio accanto alle altre semiotiche della moda, del testo, della cucina, della città, della pubblicità, ecc.?

LOGICA E SEMIOTICA Kant (Fondazione della metafisica dei costumi) ricorda che l’antica filosofia greca era divisa in tre scienze: fisica, etica e logica. Locke (Saggio sull’intelletto umano) riprende la tradizione parlando di fisica, etica e semiotica. Ma la la semiotica è un altro nome per parlare di logica (e così è stato ripreso da Boole e Peirce, che ha allargato il discorso, rimanendo peraltro un grande logico). E’ il livello di astrazione che fa la differenza. Capisco che studiare il sistema semiotico della moda ha un certo valore in Italia, la cui immagine nel mondo è affidata, oltre alla storia dell’arte, ai nomi dell’alta moda: Armani, Cavallo, Fendi, Gucci, Prada, Tod’s, Versace e più di 100.000 aziende italiane (o comprate dai cinesi).

Ma prova a far studiare al primo anno di filosofia il sistema semiotico della moda e prova a farlo applicare all’analisi di un testo filosofico. Probabilmente si otterrà l’analisi dei vestiti eleganti di Kant, e della loro differenza dal vestire un po’ provinciale di Heidegger (andare su Google-immagini per credere), ma non ne caverai molto di più.

O chissà, forse dall’analisi del sistema di moda dei vestiti di Kant si potrà ricavare una deduzione trascendentale. E’ improbabile, ma non impossibile: non poniamo limiti all’inventiva.

AH! IL LATINO! Forse, prima ancora di pensare alle semiotiche, si dovrebbe fornire a chi studia filosofia (e non solo a loro) qualche strumento elementare di analisi logica del linguaggio, come la forniva l’insegnamento del latino. Ah! Il latino, sì che era davvero formativo!

Calma.

Perché era formativo?

Perché appunto faceva studiare analisi logica.

E allora perché non fare appunto studiare analisi logica con gli strumenti di oggi, così come i tecnici delle caldaie non si limitano a usare cacciaviti e chiavi inglesi, ma sanno usare analizzatori di combustione e altri strumenti senza i quali non potrebbero fare il loro lavoro?