lunedì 31 ottobre 2011
SOFTWERLAND: Sinapsi e neuroni, ecco il sistema nervoso-VIDEO- LASTAMPA.it
NEWS
26/10/2011 - NEUROSCIENZE
Le sorprese del gene
che ci regala le parole
Le origini del linguaggio sono sepolte nel nostro Dna
MULTIMEDIA
VIDEO
Sinapsi e neuroni, ecco il sistema nervoso
A un decennio dalla scoperta Foxp2 regala nuove sorprese
GABRIELE BECCARIA
Si dice che le parole non lasciano fossili. In realtà non è proprio così. I fossili esistono, ma bisogna scovarli e interpretarli. All’interno di noi, nella fabbrica biologica del nostro essere: il Dna.
Sono 10 anni che la traccia è stata identificata, ma adesso il lavoro di analisi su quella esile traccia sta snocciolando risultati a catena. E così si comincia a capire qualcosa di più sul perché non stiamo mai zitti e siamo diventati la specie che si identifica con le proprie infinite invenzioni verbali.
La storia ha origine nel 2001, quando si scopre un’intera famiglia della periferia londinese con problemi di articolazione dei suoni. L’aspetto che all’epoca sorprese di più i neurologi era che l’intelligenza non c’entrava. Le capacità intellettuali dei genitori e dei quattro figli risultavano normali. Il loro problema era la pronuncia delle parole e, a volte, la capacità di capirle correttamente. Solo dopo una laboriosa ricerca emerse una nonna con una piccola, eppure decisiva, mutazione in un gene, chiamato Foxp2: era quel pezzo di Dna l’indizio fossile che nascondeva la chiave dell’enigma.
La storia, ora, continua con un duplice colpo di scena. Frederique Liegeois, neuroscienziata cognitiva allo University College di Londra, ha sottoposto la famiglia nota agli studiosi con la sigla «Ke» alle analisi con l’fMRI, la tecnica di risonanza magnetica funzionale che visualizza in diretta il funzionamento del cervello: quando le «cavie» dovevano scandire una serie di termini particolarmente difficili, non si osservava l’«accelerazione» standard dell’attività dei gangli basali, l’area responsabile dei veloci movimenti muscolari e facciali che rendono possibili le acrobazie linguistiche.
Contemporaneamente, un team di Oxford non ha mai smesso di studiare il «fossile». Prima si è reso conto che il gene è tutt’altro che raro: esiste da 300 milioni di anni e tutti i vertebrati terrestri lo condividono. Poi ha osservato che nell’uomo Foxp2 si è come imbizzarrito e che due aminoacidi nella proteina prodotta dal gene sono cambiati in appena pochi milioni di anni. Nessun’altra specie presenta questa stranezza, anche se le alterazioni nelle regioni dei cromosomi possono avvenire più spesso di quanto si pensasse. Negli uccelli canori, per esempio, provoca problemi di apprendimento delle note e condanna le vittime all’isolamento sociale.
Gli studi sono proseguiti e sulla rivista «PloS Genetics» ha debuttato l’ennesima (e non l’ultima) sorpresa: Foxp2 regola il «wiring» - vale a dire le connessioni - di molti neuroni. Indagando il tessuto embrionale del cervello, Sonja Vernes e Simon Fisher hanno visto che la proteina codificata agisce come un interruttore globale. E’ il direttore d’orchestra di decine di altri geni, ciascuno responsabile dell’accensione e dello spegnimento delle reti con cui comunicano le cellule del cervello. Alla fine emerge uno scenario complesso, di reciproci legami e labirintiche ridondanze, che sembra essere il «grande facilitatore» del linguaggio. Le sinapsi e i canali che si creano nell’essere umano non vengono replicati dagli altri mammiferi e i test con i topolini ingegnerizzati in laboratorio hanno confermato questa eccezionalità.
La nuova ipotesi, a questo punto, è che Foxp2 dev’essere comparso come un regolatore dell’apprendimento dei movimenti corporei. Solo in un secondo tempo avrebbe «imparato» a regolare la crescita neuronale. E, finalmente, in una fase successiva si sarebbe incaricato di generare un sofisticato mix, in cui le competenze muscolari e le abilità cognitive si sarebbero strettamente legate, dando così voce al linguaggio. Il gene - con ogni probabilità - è solo la punta dell’iceberg. Il decennale delle sue avventure scientifiche è l’inizio di una storia che si annuncia lunghissima.
Sinapsi e neuroni, ecco il sistema nervoso-VIDEO- LASTAMPA.it
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26/10/2011 - NEUROSCIENZE
Le sorprese del gene
che ci regala le parole
Le origini del linguaggio sono sepolte nel nostro Dna
MULTIMEDIA
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Sinapsi e neuroni, ecco il sistema nervoso
A un decennio dalla scoperta Foxp2 regala nuove sorprese
GABRIELE BECCARIA
Si dice che le parole non lasciano fossili. In realtà non è proprio così. I fossili esistono, ma bisogna scovarli e interpretarli. All’interno di noi, nella fabbrica biologica del nostro essere: il Dna.
Sono 10 anni che la traccia è stata identificata, ma adesso il lavoro di analisi su quella esile traccia sta snocciolando risultati a catena. E così si comincia a capire qualcosa di più sul perché non stiamo mai zitti e siamo diventati la specie che si identifica con le proprie infinite invenzioni verbali.
La storia ha origine nel 2001, quando si scopre un’intera famiglia della periferia londinese con problemi di articolazione dei suoni. L’aspetto che all’epoca sorprese di più i neurologi era che l’intelligenza non c’entrava. Le capacità intellettuali dei genitori e dei quattro figli risultavano normali. Il loro problema era la pronuncia delle parole e, a volte, la capacità di capirle correttamente. Solo dopo una laboriosa ricerca emerse una nonna con una piccola, eppure decisiva, mutazione in un gene, chiamato Foxp2: era quel pezzo di Dna l’indizio fossile che nascondeva la chiave dell’enigma.
La storia, ora, continua con un duplice colpo di scena. Frederique Liegeois, neuroscienziata cognitiva allo University College di Londra, ha sottoposto la famiglia nota agli studiosi con la sigla «Ke» alle analisi con l’fMRI, la tecnica di risonanza magnetica funzionale che visualizza in diretta il funzionamento del cervello: quando le «cavie» dovevano scandire una serie di termini particolarmente difficili, non si osservava l’«accelerazione» standard dell’attività dei gangli basali, l’area responsabile dei veloci movimenti muscolari e facciali che rendono possibili le acrobazie linguistiche.
Contemporaneamente, un team di Oxford non ha mai smesso di studiare il «fossile». Prima si è reso conto che il gene è tutt’altro che raro: esiste da 300 milioni di anni e tutti i vertebrati terrestri lo condividono. Poi ha osservato che nell’uomo Foxp2 si è come imbizzarrito e che due aminoacidi nella proteina prodotta dal gene sono cambiati in appena pochi milioni di anni. Nessun’altra specie presenta questa stranezza, anche se le alterazioni nelle regioni dei cromosomi possono avvenire più spesso di quanto si pensasse. Negli uccelli canori, per esempio, provoca problemi di apprendimento delle note e condanna le vittime all’isolamento sociale.
Gli studi sono proseguiti e sulla rivista «PloS Genetics» ha debuttato l’ennesima (e non l’ultima) sorpresa: Foxp2 regola il «wiring» - vale a dire le connessioni - di molti neuroni. Indagando il tessuto embrionale del cervello, Sonja Vernes e Simon Fisher hanno visto che la proteina codificata agisce come un interruttore globale. E’ il direttore d’orchestra di decine di altri geni, ciascuno responsabile dell’accensione e dello spegnimento delle reti con cui comunicano le cellule del cervello. Alla fine emerge uno scenario complesso, di reciproci legami e labirintiche ridondanze, che sembra essere il «grande facilitatore» del linguaggio. Le sinapsi e i canali che si creano nell’essere umano non vengono replicati dagli altri mammiferi e i test con i topolini ingegnerizzati in laboratorio hanno confermato questa eccezionalità.
La nuova ipotesi, a questo punto, è che Foxp2 dev’essere comparso come un regolatore dell’apprendimento dei movimenti corporei. Solo in un secondo tempo avrebbe «imparato» a regolare la crescita neuronale. E, finalmente, in una fase successiva si sarebbe incaricato di generare un sofisticato mix, in cui le competenze muscolari e le abilità cognitive si sarebbero strettamente legate, dando così voce al linguaggio. Il gene - con ogni probabilità - è solo la punta dell’iceberg. Il decennale delle sue avventure scientifiche è l’inizio di una storia che si annuncia lunghissima.
I veri amici su Facebook? Al massimo 150 - Wired.it
I veri amici su Facebook? Al massimo 150
Lo dice il nostro cervello. E anche l’antropologo Robin Dunbar, ospite al Festival della Scienza di Genova. Ecco perché
28 ottobre 2011 di Carola Frediani
E poi dicono che gli studi sul comportamento animale non hanno ricadute pratiche. Chiedetelo all’Agenzia delle Entrate svedese, che qualche anno fa si è riorganizzata internamente sulla base delle analisi di Robin Dunbar, docente di antropologia evoluzionistica all’università di Oxford e ospite in questi giorni del Festival della Scienza di Genova con la lectio magistralis - il 29 ottobre - intitolata Di quanti amici abbiamo bisogno?: proprio come il suo libro edito da Raffaello Cortina.
L’autorità scandinava ha infatti fissato un limite massimo di 150 impiegati per ufficio, motivandolo proprio con gli studi del professore britannico. I dipendenti non l’hanno presa molto bene, specie quando hanno capito che all’origine di queste teorie ci sono ricerche effettuate su scimmie e altri primati. Eppure il numero di Dunbar, che indica in circa 150 la quantità di persone con cui un essere umano riesce a mantenere relazioni significative, sembra applicarsi a qualsiasi contesto e gruppo sociale, e non solo a nordici ispettori del fisco.
Il fatto è che, secondo Dunbar, si tratterebbe di un limite invalicabile e universale, poiché inscritto nella nostra biologia, e più precisamente nel nostro cervello. Un tetto valido sia per le società fondate su caccia e raccolta, sia per i villaggi inglesi del ‘700, sia per i social network online. Insomma, possiamo anche accumulare migliaia di amici su Facebook, ma riusciremo realmente a relazionarci solo con 150 di questi contatti. E non c’è Zuckerberg o altra innovazione tecnologica che possa cambiare le cose.
Prof. Dunbar, la sua teoria ha fatto molto discutere in Rete. Ma come è arrivato a fissare il numero di 150?
"Nelle scimmie esiste una relazione tra la dimensione dei gruppi sociali e quella del cervello: questa relazione applicata agli esseri umani, e alla dimensione del loro cervello, predice che l’estensione dei gruppi arriva a 150. Di fatto questo numero ricorre spesso nelle organizzazioni naturali, nelle comunità, ma anche nei legami sociali personali, cioè nel numero di amici che può avere un singolo individuo. La relazione dipende dal fatto che il numero di persone con cui riusciamo a mantenere un certo livello di intimità è limitata dalla dimensione del nostro cervello: e dunque dalla nostra capacità di gestire questi rapporti nella nostra mente".
Ma tutto ciò cosa significa per i social network online? Sappiamo bene che gli utenti di Facebook tendono ad avere moltissimi “ amici”: e, anche se non sono tutti intimi, le interazioni sono tante e su diversi livelli.
"Questi limiti valgono anche online, e lo stesso Facebook lo ha dimostrato: il numero medio di amici è circa 150, anche se alcuni possono averne di più. 150 è solo una di una serie di cerchie amicali che iniziano con 5 (i più intimi) e continuano fino a 150, per arrivare a 1500: che è il numero di facce che possiamo ricordare.
DAILY WIRED NEWS SCIENZA
I veri amici su Facebook? Al massimo 150
Lo dice il nostro cervello. E anche l’antropologo Robin Dunbar, ospite al Festival della Scienza di Genova. Ecco perché
28 ottobre 2011 di Carola Frediani
Si possono aggiungere nomi su Facebook, ma si tratterà solo di conoscenze, se non di voyeur delle nostre vite. A me risulta che ormai negli Stati Uniti la generazione originaria di Facebook, cioè quella che si è iscritta dall’inizio, considera immaturo chi esibisce più di 100 amici".
E quindi non pensa che le società moderne e internet possano cambiare la natura e i limiti delle relazioni interpersonali? O che a gruppi coesi e localizzati geograficamente si possano sostituire reti più estese, sparse, liquide?
"No. Il limite è sempre quello. Nella vita reale conosciamo più di 150 persone ma non le chiamiamo amici. Facebook ha confuso la parola amicizia chiamando amico qualsiasi nuovo contatto".
Ma i social network le hanno mai chiesto aiuto per studiare le dinamiche di gruppo? C’era una piattaforma, Path, che limitava il numero di connessioni a 50, e diceva di ispirarsi proprio a lei.
"Sì, Path.com ha usato le mie ricerche per restringere la quantità di amici che si possono avere sul suo network. L’obiettivo era costruire relazioni più intime. E francamente penso che ci sia una nicchia di mercato per questo genere di siti".
I veri amici su Facebook? Al massimo 150 - Wired.it
I veri amici su Facebook? Al massimo 150
Lo dice il nostro cervello. E anche l’antropologo Robin Dunbar, ospite al Festival della Scienza di Genova. Ecco perché
28 ottobre 2011 di Carola Frediani
E poi dicono che gli studi sul comportamento animale non hanno ricadute pratiche. Chiedetelo all’Agenzia delle Entrate svedese, che qualche anno fa si è riorganizzata internamente sulla base delle analisi di Robin Dunbar, docente di antropologia evoluzionistica all’università di Oxford e ospite in questi giorni del Festival della Scienza di Genova con la lectio magistralis - il 29 ottobre - intitolata Di quanti amici abbiamo bisogno?: proprio come il suo libro edito da Raffaello Cortina.
L’autorità scandinava ha infatti fissato un limite massimo di 150 impiegati per ufficio, motivandolo proprio con gli studi del professore britannico. I dipendenti non l’hanno presa molto bene, specie quando hanno capito che all’origine di queste teorie ci sono ricerche effettuate su scimmie e altri primati. Eppure il numero di Dunbar, che indica in circa 150 la quantità di persone con cui un essere umano riesce a mantenere relazioni significative, sembra applicarsi a qualsiasi contesto e gruppo sociale, e non solo a nordici ispettori del fisco.
Il fatto è che, secondo Dunbar, si tratterebbe di un limite invalicabile e universale, poiché inscritto nella nostra biologia, e più precisamente nel nostro cervello. Un tetto valido sia per le società fondate su caccia e raccolta, sia per i villaggi inglesi del ‘700, sia per i social network online. Insomma, possiamo anche accumulare migliaia di amici su Facebook, ma riusciremo realmente a relazionarci solo con 150 di questi contatti. E non c’è Zuckerberg o altra innovazione tecnologica che possa cambiare le cose.
Prof. Dunbar, la sua teoria ha fatto molto discutere in Rete. Ma come è arrivato a fissare il numero di 150?
"Nelle scimmie esiste una relazione tra la dimensione dei gruppi sociali e quella del cervello: questa relazione applicata agli esseri umani, e alla dimensione del loro cervello, predice che l’estensione dei gruppi arriva a 150. Di fatto questo numero ricorre spesso nelle organizzazioni naturali, nelle comunità, ma anche nei legami sociali personali, cioè nel numero di amici che può avere un singolo individuo. La relazione dipende dal fatto che il numero di persone con cui riusciamo a mantenere un certo livello di intimità è limitata dalla dimensione del nostro cervello: e dunque dalla nostra capacità di gestire questi rapporti nella nostra mente".
Ma tutto ciò cosa significa per i social network online? Sappiamo bene che gli utenti di Facebook tendono ad avere moltissimi “ amici”: e, anche se non sono tutti intimi, le interazioni sono tante e su diversi livelli.
"Questi limiti valgono anche online, e lo stesso Facebook lo ha dimostrato: il numero medio di amici è circa 150, anche se alcuni possono averne di più. 150 è solo una di una serie di cerchie amicali che iniziano con 5 (i più intimi) e continuano fino a 150, per arrivare a 1500: che è il numero di facce che possiamo ricordare.
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domenica 30 ottobre 2011
Luigi Pirandello, sintesi biografica ed opere
Luigi Pirandello
(sintesi biografica ed opere)
Luigi Pirandello, nato ad Agrigento il 28 giugno 1867, è stato drammaturgo, scrittore e poeta.
Nel 1934 venne insignito del premio Nobel per la letteratura.
L’infanzia di Pirandello non fu sempre serena ma, come lui stesso racconterà nel 1935, caratterizzata anche dalla difficoltà di comunicare con gli adulti e in specie con i suoi genitori, in modo particolare con il padre. Questo lo stimolò forse ad affinare le sue capacità espressive e a studiare il modo di comportarsi con gli altri per cercare di corrispondervi al meglio.
Il giovane Luigi era molto devoto alla Chiesa Cattolica grazie all’influenza che ebbe su lui una serva di famiglia, che lo avvicinò alle pratiche religiose, ma inculcandogli anche credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa presenza degli spiriti.
La chiesa e i riti della confessione religiosa gli permettevano di accostarsi ad un’esperienza di misticismo, che cercherà di raggiungere in tutta la sua esistenza.
Dopo l’istruzione elementare impartitagli da maestri privati, andò a studiare in un istituto tecnico e poi al ginnasio. Qui si appassionò subito alla letteratura. A soli undici anni scrisse la sua prima opera, “Barbaro”, andata perduta.
Per un breve periodo, nel 1886, aiutò il padre nel commercio dello zolfo, e poté conoscere direttamente il mondo degli operai nelle miniere e quello dei facchini delle banchine del porto mercantile.
Iniziò i suoi studi universitari a Palermo nel 1886, per recarsi in seguito a Roma, dove continuò i suoi studi di filologia romanza che poi, anche a causa di un insanabile conflitto con il rettore dell’ateneo capitolino, dovette completare, su consiglio del suo maestro Ernesto Monaci, a Bonn (1889).
A Bonn, importante centro culturale di quei tempi, Pirandello seguì i corsi di filologia romanza ed ebbe l’opportunità di conoscere grandi maestri come Franz Bücheler, Hermann Usener e Richard Förster.
Si laureò nel 1891 con una tesi sulla parlata agrigentina “Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti” (Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti), in cui descrisse il dialetto della sua città e quelli dell’intera provincia, che suddivise in diverse aree linguistiche.
Il tipo di studi gli fu probabilmente di fondamentale aiuto nella stesura delle sue opere, dato il raro grado di purezza della lingua italiana utilizzata.
Rappresentò sulle scene l’incapacità dell’uomo di identificarsi con la propria personalità, nel dramma della ricerca di una verità al di là delle convenzioni e delle apparenze.
Essendo siciliano, anche Pirandello muove da moduli veristi con novelle paesane, ma da subito il suo verismo è caricaturale e grottesco, inteso a scardinare polemicamente i nessi logici della realtà, soprattutto laddove questi nessi non sono altro che pregiudizi borghesi.
I suoi temi di fondo sono già tutti presenti nel suo primo romanzo, L'esclusa(1901) che narra la storia di una donna cacciata di casa dal marito perché ritenuta, ingiustamente, adultera, poi riammessa proprio quando l'adulterio l'ha realmente compiuto.
In Pirandello, i temi di fondo sono:
il contrasto tra apparenza (o illusione) e realtà (o tra forma e vita), nel senso che l'uomo ha degli ideali che la realtà impedisce di vivere, poiché la realtà si ferma all'apparenza e non permette all'uomo di essere se stesso;
l'assurdità della condizione dell'uomo, fissata in schemi precostituiti (adultero, innocente, ladro, iettatore, ecc.): a ciò Pirandello cercherà di opporre il sentimento della casualità o imprevedibilità delle vicende umane; molte sue commedie rappresentano situazioni inverosimili o paradossali, proprio per mettere meglio in luce l'assurdità dei pregiudizi borghesi;
le molteplici sfaccettature della verità (tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla) espresse col "sentimento del contrario" (che è alla base del suo umorismo e che viene utilizzato per vanificare ogni possibile illusione).
Pirandello ha una concezione relativistica dell'uomo, che ne esclude una conoscenza scientifica. L'uomo è troppo assurdo per essere capito (mentre la natura è più semplice, inconsapevole, felice, anche se resta un paradiso perduto e rimpianto). Il borghese si dibatte fra ciò che sente dentro (sempre mutevole) e il rispetto che deve alle convenzioni sociali (sempre fisse e stereotipate). La "forma" o "apparenza" è l'involucro esteriore che noi ci siamo dati o in cui gli altri ci identificano; la "vita" invece è un flusso di continue sensazioni che spezza ogni forma. Noi crediamo di essere "forme stabili" (personalità definite): in realtà tutto ciò è solo una maschera dietro cui sta la nostra vera vita, fondata sull'inconscio, cioè sull'istinto e sugli impulsi contraddittori. Parafrasando un titolo di un suo romanzo, si potrebbe dire che noi siamo:
"uno" (perché pretendiamo di avere una forma),
"nessuno" (perché non abbiamo una personalità definita) e
"centomila" (perché a seconda di chi ci guarda abbiamo un aspetto diverso).
L'uomo, in definitiva, è soggetto al caso, che lo rende una marionetta, che gli impedisce di darsi una personalità. Ogni personaggio teatrale è immerso in una tragica solitudine che non consente alcuna vera comunicativa: sia perché il dialogo non ha lo scopo di far capire le cose o di risolvere i problemi, ma solo di confermare l'assurdità della vita; sia perché ogni tentativo di comprendersi reciprocamente è fondato sull'astrazione delle parole (sofistica), che non riflettono più valori comuni, ma solo la comune alienazione (i dialoghi sono cervellotici e filosofici). D'altra parte, questa è una delle novità del teatro pirandelliano, che lo avvicina molto a quello di Brecht, Ionesco, Beckett..., dandogli una rilevanza mondiale.
Il "sentimento del contrario", tuttavia, potrebbe portare al suicidio o alla follia, se assolutizzato.
Pirandello evita questa soluzione affermando che in un'epoca decadente, dove tutto è relativo, solo un'arte umoristica è possibile, un'arte cioè che sappia cogliere i sotterfugi e le piccole meschinità delle persone, senza però che tutto questo divenga oggetto di riso.
L'uomo non può far di meglio: ecco perché merita compassione. L'umorista non solo denuncia il vuoto della società borghese, le costruzioni artificiose con cui cerchiamo di ingannare gli altri e noi stessi, ma ha pure pietà dell'uomo che si comporta così, condizionato com'è dal più generale mentire sociale.
Pirandello non ha mai cercato le cause dell'alienazione che caratterizza tutti i suoi personaggi, presi dalla piccola borghesia (impiegati, insegnanti, ecc.). Egli ne attribuisce, in modo generico, alla storia e al caso la responsabilità. Solo nel romanzo I vecchi e i giovani scorge nel fallimento degli ideali risorgimentali e borghesi di libertà e giustizia, la causa storica e sociale della moderna crisi d'identità.
Pirandello non è un uomo che di fronte alle contraddizioni sociali prova una sofferenza che va in profondità, ma è senza dubbio un intellettuale che le sa utilizzare come forma di autoaffermazione: non si piangeva addosso come il Verga. In questo senso resta modernissimo e, se si vuole usare la parola "decadente", lo si deve fare non in riferimento al suo modo di gestire la cultura, ma solo al rifiuto consapevole di andare sino in fondo nell'analizzare il malessere della vita sociale.
Pirandello ha saputo teorizzare la follia restando lucido sino alla fine, perché aveva capito, vedendo il consenso "folle" del pubblico, che poteva giocare su questo argomento realizzando una notevole fortuna e uscendo finalmente dalla tetraggine del meridionalismo autoflagellante. Il meglio di sé non lo dà certo quando mette alla berlina la cultura meridionale, quella cultura che gli impediva di affermarsi socialmente.
Due anni prima della morte avvenuta a Roma nel dicembre del 1936 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Tra le sue opere più celebri: Il fu Mattia Pascal (1904), Uno nessuno e centomila (1926) e la sua raccolta di novelle Novelle per un anno.
Pirandello raggiunse la fama con l’opera teatrale (citiamo: Lumìe di Sicilia, Cosi è se vi pare, Sei personaggi in cerca di autore, Enrico IV) e ricevette grandi accoglienze anche dal pubblico e dai critici stranieri soprattutto in Germania ed in Francia, i suoi drammi furono interpretati dalle maggiori compagnie del tempo.
Pertanto Luigi Pirandello è sicuramente uno dei massimi drammaturghi e scrittori italiani del Novecento. Anche se la sua fortuna critica è sempre stata molto controversa (soprattutto in Italia), è uno dei pochi scrittori italiani contemporanei che abbia saputo conquistarsi una fama internazionale: non tanto per il premio Nobel quanto grazie allo straordinario numero di compagnie che ne mettono in scena i drammi in molti Paesi.
Pirandello è probabilmente l’autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all’unità d’Italia all’avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana. Sul piano letterario il suo punto di partenza fu, come per gran parte degli autori nati nella seconda metà dell’Ottocento, il naturalismo. Fin dal primo momento però l’oggetto privilegiato, o pressoché esclusivo, delle rappresentazioni pirandelliane non furono le classi popolari bensì la condizione della piccola borghesia.
Da questa prospettiva lo scrittore seppe sviluppare una corrosiva critica di costume, cogliendo in profondità la crisi delle strutture tradizionali della famiglia patriarcale. Poiché però anch’egli apparteneva alla piccola borghesia, finì per assolutizzarne i dubbi e le sofferenze, che rappresentò come il segno di una condizione eterna di tutti gli esseri umani.
D’altro canto fu proprio la direzione esistenziale e metafisica assunta dalla sua ricerca a portarlo molto vicino alle posizioni di alcuni dei più grandi scrittori europei di questo secolo. Paragonato, volta a volta, a Kafka o a Camus, a Sartre o ai drammaturghi del teatro dell’assurdo come Beckett e Ionesco, Pirandello è stato uno dei pochissimi scrittori italiani del Novecento capaci di raggiungere una fama mondiale: ancora oggi i suoi drammi sono, dopo quelli di Shakespeare, i più rappresentati in tutto il mondo.
Al centro della concezione pirandelliana sta il contrasto tra apparenza e sostanza. La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all’inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare l’inadeguatezza degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà. L’arte, espressione del dubbio sistematico, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e i falsi miti costruiti dagli scrittori del decadentismo, a cominciare da D’Annunzio.
Le opere di Pirandello guadagnano un successo sempre più crescente: Sei personaggi in cerca d’autore, dopo il suo fallimento a Roma, trionfa a Milano nel 1921. Dopo un primo viaggio, nel 1923, a Parigi ed a New York, il Teatro dell’ arte di Roma, di cui Pirandello è il direttore, presenta Sagra del signore della nave in Germania, in Gran Bretagna ed in Francia. Diana e la Tuda è data a Zurigo nel 1926. Molte pièce importanti, negli anni successivi, saranno così date all’estero prima di essere rappresentate in Italia: Lazzaro a Huddersfield (1929), Questa sera si recita a soggetto a Königsberg (1930), Quando si è qualcuno a Buenos Aires (1933), La favola del figlio cambiato in Germania (1934), Non si sa come a Praga (1934).
Molte opere di Pirandello, lui vivo, sono state adattate per il cinema come: Ma non è una cosa seria (1920), Il fu Mattia Pascal (1925), Enrico IV (1926); oltre che, dalla novella, In silenzio, è tratto l’adattamento cinematografico della prima pellicola sonora prodotta in Italia, poi nel 1930 la MGM porterà sullo schermo, Come tu mi vuoi, interpretato dalla celebre Greta Garbo.
SOFTWERLAND: Significato del numero TRE, simbologia e interpretazione
domenica 30 ottobre 2011
Significato del numero TRE, simbologia e interpretazione
Significato del numero TRE, simbologia e interpretazione
Il numero Tre simboleggia la creatività come espressione e sviluppo dell’intelletto. Inoltre, rappresenta la facoltà di adoperare al meglio la conoscenza acquisita e di elaboare nuovi sistemi di comunicazione. Il numero Tre emana una profonda energia che si esplica in modo vivace, prolifico e appassionato. Questo deriva dalla congiuntura della forza innovatrice del numero Uno con quella della capacità di sviluppo del numero Due. Tutto ciò sta a indicare che siamo in presenza di un forte flusso energetico che sollecita e accompagna l’immaginazione.
La persona del Tre generalmente è ottimista e ama decorare tutto ciò che circonda la sua vita. Le sue azioni sono sempre accompagnate da entusiasmo e grande partecipazione esternando, al contempo, la sua forte potenzialità interiore. Le persone rappresentate dal numero Tre trovano la loro giusta dimensione nel rapporto con gli altri, condividendo idee, pensieri ed emozioni. Generalmente allegre, cordiali e con uno spiccato senso di umorismo, i numeri Tre hanno un’innato potere di coinvolgimento riuscendo a contagiare le persone che ruotano intorno al loro mondo. Giudicate, a volte, come persone frivole, sono spesso ricercate per godere della loro compagnia.
Significato del numero TRE, simbologia e interpretazione
Il numero Tre simboleggia la creatività come espressione e sviluppo dell’intelletto. Inoltre, rappresenta la facoltà di adoperare al meglio la conoscenza acquisita e di elaboare nuovi sistemi di comunicazione. Il numero Tre emana una profonda energia che si esplica in modo vivace, prolifico e appassionato. Questo deriva dalla congiuntura della forza innovatrice del numero Uno con quella della capacità di sviluppo del numero Due. Tutto ciò sta a indicare che siamo in presenza di un forte flusso energetico che sollecita e accompagna l’immaginazione.
La persona del Tre generalmente è ottimista e ama decorare tutto ciò che circonda la sua vita. Le sue azioni sono sempre accompagnate da entusiasmo e grande partecipazione esternando, al contempo, la sua forte potenzialità interiore. Le persone rappresentate dal numero Tre trovano la loro giusta dimensione nel rapporto con gli altri, condividendo idee, pensieri ed emozioni. Generalmente allegre, cordiali e con uno spiccato senso di umorismo, i numeri Tre hanno un’innato potere di coinvolgimento riuscendo a contagiare le persone che ruotano intorno al loro mondo. Giudicate, a volte, come persone frivole, sono spesso ricercate per godere della loro compagnia.
Maria Laterza: Ennio Montariello 1960 | Italy
Nato a Napoli nel 1960, Ennio Montariello vive a Campello sul Clitunno (Pg) nella frazione di Pissignano in via del Castello, 33. Nel 1978 si diploma presso il Liceo Artistico di Napoli. Nel 1982 e 1983 si diploma agli Stages Internazionali di pittura di Anacapri di Napoli. Questioni delle arti: incontri internazionali, tenuti da Gillo Dorfles, Joe Tilson, Gianni Pisani, Enrico Baj, Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, Filiberto Menna, Lea Vergine, Francesco Vincitorio, Mimma Russo. Nel 1983 consegue il diploma di laurea del corso di pittura (Maestro Domenico Spinosa) presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli. L’evento fondamentale e “potente” nella sua vita di artista è l’incontro con la Scuola internazionale di OntoArte, negli anni Ottanta. La corrente artistica dell’OntoArte, il cui fondatore e caposcuola è l’Accademico Prof. Antonio Meneghetti, si caratterizza come movimento di pensiero con cui si indicano tutte quelle manifestazioni artistiche che si motivano sempre dalla intenzionalità ontologico-umanistica, intesa come il formalizzato apriorico del nostro esistere.Il riconoscimento della novità del messaggio e dell’apertura di pensiero che questa corrente sottende e suscita, lo induce ad approfondirne lo studio e nel 1989 consegue il diploma di OntoArte in disegno e pittura e diventa, nel 1992, consigliere dell’Associazione Internazionale di OntoArte.
Secret Mind Blog: Illusione ottica: Fenomeno Phi - La pantera che corre - StumbleUpon
Con questa straordinaria illusione ottica scopriamo una delle più utilizzate illusioni ottiche: L'effetto Phi!
Pochi sanno, infatti, di venire continuamente sottoposti a questa particolare illusione ottica, descritta da Max Wertheimer, che consiste nel percepire in movimento immagini statiche presentate all'occhio in rapida successione!
Una volta cliccato sul link che segue trascinate, col mouse, la griglia nera da destra verso sinistra e, mentre lo fate, vi accorgerete che l'immagine della pantera sembra correre
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Secret Mind Blog: Illusione ottica: Fenomeno Phi - La pantera che corre - StumbleUpon
Con questa straordinaria illusione ottica scopriamo una delle più utilizzate illusioni ottiche: L'effetto Phi!
Pochi sanno, infatti, di venire continuamente sottoposti a questa particolare illusione ottica, descritta da Max Wertheimer, che consiste nel percepire in movimento immagini statiche presentate all'occhio in rapida successione!
Una volta cliccato sul link che segue trascinate, col mouse, la griglia nera da destra verso sinistra e, mentre lo fate, vi accorgerete che l'immagine della pantera sembra correre!
Il lato velenoso degli oggetti (che può causare l'infertilità) - Wired.it
San Giovanni in Laterano - Visita Virtuale
1. Abside
2. Transetto 1
3. Transetto 2
4. Navata 1
5. Navata 2
6. Cappella Colonna
7. Cappella Lancellotti
8. Cappella Corsini
9. Chiostro
10. Battistero
11. Cappella del Battistero
12. Esterno (Nord)
13. Esterno (Est)
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