Intervista a Luciano Gallino. La guerra tra il capitale e i lavoratori è finita (e i lavoratori l’hanno persa)
Luciano Gallino è professore emerito, già ordinario di Sociologia, all'Università di Torino. Si occupa da tempo delle trasformazioni del lavoro e dei processi produttivi nell'epoca della globalizzazione. Tra i suoi numerosi volumi: La scomparsa dell'Italia industriale (2003), L'impresa irresponsabile (2005), Con i soldi degli altri (2009) e Finanzcapitalismo (2011).
L’ultimo suo libro si chiama “FinanzCapitalismo. La civiltà del denaro in crisi”. Che tipo di crisi stiamo attraversando?
È una crisi che ha diverse facce. La più evidente è quella che imperversa sui media, giustamente, la crisi finanziaria. Anche detta crisi dell’economia reale, non soltanto a causa del calo della produzione, ma perché alcuni settori produttivi stanno entrando in una fase di difficoltà permanente. Ma si parla poco di un’altra faccia di questa crisi, quella sociale, della disoccupazione che sta raggiungendo un’ampiezza ormai mondiale, in Paesi cosiddetti “sviluppati” che avevavo dimenticato crisi simili (non avendone più subite da molti decenni). L’altro aspetto dimenticato è quello dell’ecologia, la cui crisi è passata in secondo piano rispetto ai problema economici, ritenuti più urgenti.
Lo scopo dell’economia capitalistica è accumulare la ricchezza. La finanza non è forse la massima espressione di questa intenzione?
L’economia capitalistica ha per lungo tempo accumulato ricchezza producendo merci (non che non c’entrasse la finanza: la finanza esiste da secoli, era già molto sviluppata alla metà dell’Ottocento). Ma il meccanismo di base era finanziare la produzione di merci e guadagnare in conseguenza della vendita delle merci. Il capitalismo finanziario ha soppresso il termine intermedio: esso produce il denaro mediante il denaro, senza produrre nessuna merce. Le transazioni in Borsa (che a moltissimi creano ansia, più volte al giorno) sono per l’80% puramente speculative, che non sono servite per costruire scuole o ospedali o prodotti utili alla persona. La finanza ha travalicato le sue importanti - ed entro certi limiti essenziali - funzioni: quelle di garantire il risparmio, assicurare i mezzi di pagamento, concedere prestiti. L’odierna finanza è come un motore inceppato che alimenta solo se stesso, con le conseguenze che tutti conosciamo.
È facile fare finanza “con i soldi degli altri”, come recita un altro Suo significativo titolo. Ma il paradosso è poi che sono proprio questi “altri” a farne le spese.
Con quel titolo intendevo riprendere il titolo un saggio economico dei primi del Novecento, in cui l’autore attacca duramente le Banche. Io a mia volta mi riferivo ai cosiddetti Investitori istituzionali, ai Fondi pensione, i Fondi comuni e altre componenti delle Assicurazioni, che gestiscono i fondi dei lavoratori, per un ammontare che va dai 26 ai 28 trilioni di dollari, cioè quasi la metà del PIL mondiale. Questo denaro viene gestito in un modo che anche i risparmiatori alla fine trovano utile, cioè con l’obiettivo del massimo rendimento; il problema è che, essendo questo l’unico obiettivo, i fondi vengono indifferentemente utilizzati per finanziare servizi alla persona o armamenti nucleari. Non fa differenza: conta solo il massimo rendimento. Gli investitori istituzionali sono dunque soggetti spregiudicati che non hanno nessun interesse a investire dove può essere più utile alla società. In particolare, il “capitale del lavoro” non ha nessuna possibilità di indirizzare le proprie risorse: la scelta è affidata completamente (e ciecamente), appunto, agli investitori istituzionali.
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