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sabato 16 giugno 2012

Geert Lovink: "Se la società è in crisi, lo sarà anche il Web" - Wired.it

Condé Nast

©Edizioni Condé Nast S.p.A. - P.zza Castello 27 - 20121

Milano CAP.SOC. 2.700.000 EURO I.V. C.F e P.IVA - REG.IMPRESE TRIB. MILANO N. 00834980153

SOCIETÀ CON SOCIO UNICO

Né con i cyber-utopisti, gli esegeti delle meraviglie della Rete à la Clay Shirky, né con i teorici delle potenzialità distopiche di Internet, i pessimisti à la Morozov, Geert Lovink, che ieri a Milano ha presentato il suo ultimo libro, Ossessioni Collettive (Egea) nell'ambito della manifestazione Meet the Media Guru, fa storia a sé. Il professore olandese, fondatore dell' Institute of Network Cultures di Amsterdam, è l'alfiere di un approccio pragmatico all'evoluzione dei rapporti social in Rete. Più da attivista, che da accademico. Più dedicato a cercare di comprendere i fenomeni, che a etichettarli. E nel complesso ottimista, anche se la critica del Web 2.0 presente nel libro è a tratti spietata, gli utenti dei social network appaiono quasi semplici prede inermi in un ingranaggio di algoritmi che li portano a girare vorticosamente attorno al nulla e la stessa Internet, parafrasando Woody Allen, “ non si sente troppo bene”, da quando è dovuta scendere dal suo piedistallo di certezze logaritmiche e confrontarsi con la follia del mondo reale.

Professor Lovink, all'inizio del suo ultimo libro, lei sottolinea come l'epoca della crescita armoniosa di Internet, in cui cittadini, aziende, istituzioni sembravano vedere nella Rete solo una fonte di grandissime opportunità, sia ormai alle spalle. In cosa consiste quella che lei definisce come “l'era del conflitto”?

“I nuovi media hanno raggiunto uno stadio in cui sono totalmente integrati nella società, per cui tendono a riflettere quanto accade all'interno di quest'ultima. Perciò se la società è in crisi, ciò ha delle conseguenze anche nel mondo cibernetico. Come si è visto anche di recente, in numerosi casi, dalla Primavera Araba, alla Siria, a Occupy Wall Street. È scomparsa l'idea che la Rete possa rappresentare una specie di realtà parallela, che il virtuale potesse rimanere esterno al reale. O che alla governo del Web possano applicarsi approcci peculiari, come una gestione da parte di più stakeholder o una specie di liberal consensus. Questo è ciò che io chiamo l'era del conflitto”.

Il titolo originale del suo libro Networks without a cause, reti senza uno scopo, fa riferimento alle reti sociali come Facebook e Twitter, giudicate per lo più come case di specchi in cui si resta intrappolati senza riuscire a stabilire un vero dialogo con gli altri membri, in opposizione a quelli che lei chiama organized networks. Ci può spiegare meglio questa contrapposizione?

“La differenza è molto semplice: le piattaforme come Facebook sfruttano i cosiddetti legami deboli: come per esempio gli amici degli amici, persone che non conosci davvero, ma con cui sei in qualche modo in contatto. Legami simili esistono anche al di fuori dei social network ma questi ultimi rendono il processo di acquisizione degli stessi quanto mai automatico ed efficiente: ti spingono a importare tutti gli indirizzi mail presenti nella tua rubrica e ai margini di quello che conosci. I network organizzati non rappresentano una risposta ai primi, ma servono ad approfondire i legami deboli, trasformandoli non in ampiezza, ma in profondità. Magari meno contatti, ma più mirati. Anche come risposta al problema del sovraccarico informativo: il rischio infatti di far crescere un network in maniera autoreferenziale, senza un qualche scopo che faccia da collante fra gli appartenenti, è che questo diventi del tutto inutile, una semplice sovrapposizione di voci senza alcun valore”.

In cosa consiste la religione del positivo che lei cita nel suo libro come atteggiamento prevalente nei social network come Facebook?

“C'è questa credenza generalizzata che più persone conosci più ne avrai beneficio, ma devi sempre andare d'accordo con tutti e diventa difficile dire di no, per esempio alle richieste di amicizia. Diventa difficile il confronto davvero profondo, lo scontrarsi con opinioni differenti dalle proprie, c'è spazio solo per l'apprezzamento superficiale, e diventa impossible dire non mi piace. Non c'è spazio per l'espressione di sentimenti contrastanti con l'umore generale”.

È possibile, secondo lei, tornare a forme di anonimato diffuso, in Rete? O è ormai un'utopia per nostalgici?

“Credo che sia ancora possibile, ma dobbiamo fare attenzione a diffondere il messaggio che esista qualcosa come l'assoluto anonimato o che vi si possa ritornare, sempre che sia mai esistito. Con gli strumenti attuali è sempre possibile avere un'idea, per lo meno di massima, di dove si trovi una persona o di chi possa essere. Non bisogna però nemmeno essere troppo spaventati da tutte le storie di polizie e servizi segreti che ci possono rintracciare. Credo invece quello dell'anonimato in Rete sia un lasciato positivo degli anni '90, che meriti di essere difeso. Un modello interessante a cui ispirarsi potrebbe essere la cultura di pseudonimia che esiste in Wikipedia. Wikipedia permette di costruirti una reputazione e di fornire il tuo contributo usando uno pseudonimo. So è che è una politica piuttosto controversa, all'interno dell'accademia, perché dicono: chiunque può scrivere qualsiasi cosa, non c'è controllo. Sarà anche vero, ma il sistema funziona piuttosto bene. Può perciò essere un modello affinché una forma di anonimato o pseudo anonimato si riaffermi”.

Lei parla dei pericoli di affidarsi a Facebook per progetti di attivismo. Non ritiene che piattaforme come Twitter e la stessa Facebook abbiano svolto e possano svolgere ancora un ruolo importante per coordinare e dare forma al malcontento di vaste masse di persone?

“Sì, è vero, ma il problema è che si tratta di una specie di corsa agli armamenti. I social media hanno giocato un ruolo in Egitto, ma subito dopo le autorità in Siria se ne sono accorte e hanno preso delle contromisure. La sfiducia perciò non ha niente a che vedere con Facebook in quanto azienda, ma col fatto che i regimi repressivi imparano in fretta. E quello che funzionava prima, potrebbe non funzionare pochi mesi dopo. Non c'è una ricetta sola. Per questo motivo negli anni '90 io e altri abbiamo sviluppato l'idea dei media tattici, per fornire agli attivisti degli strumenti per reagire: che si tratti della creazione di una radio o della registrazione di un brano che viene poi fatto arrivare di contrabbando all'estero, gli attivisti devono essere sempre aperti e pronti a passare da uno strumento a un altro”.

Centrale nel suo libro è la questione del tempo (“il tempo è il messaggio”). Le nuove tecnologie, che avevano promesso di liberarci dagli impegni, ci costringono invece sempre più a un'esistenza frenetica. Come possiamo riappropriarci della lentezza?

“Siamo qui in Italia, a Milano, non spetta a me parlare di argomenti come Slow Food o slow communication, e l'approccio slow potrebbe essere ulteriormente approfondito e applicato anche ai nuovi media. Certo, richiede un certo tipo di training - alcuni parlerebbero di yoga o meditazione. Una forma di allenamento mentale, nel senso di saper prendere le distanze da un determinato oggetto o da una determinata situazione. Oggi anche il termine media literacy assume un nuovo significato: non riguarda la conoscenza di come funzionano le macchine dal punto di vista tecnico, ma il sapere come integrare la tecnologia nella propria vita. Ed è qualcosa che bisognerebbe imparare fin da piccoli”.

A un certo punto, lei scrive (pag. 225): “com'è possibile che così tanti individui abbiano finito per dipendere da un solo motore di ricerca?”. Questo predominio di un unica società. Google, nel campo delle ricerche Internet, potrebbe portare a dei problemi nel campo della libertà di espressione?

“No, non credo. Credo che Google rimarrà per lo più una società radicata in America e in Europa. In altre parti del mondo, in Asia, in Africa, in America Latina, la gente non ha legami profondi con Google, che è arrivata tardi in questi mercati, non era molto interessata, ed è per questo motivo che non raggiungeranno la maggioranza degli utenti Internet di quei paesi. In generale, non condivido molto le preoccupazioni dell'Unione Europea nei confronti del monopolio di alcuni grandi società Internet nel loro settore. Il problema esiste, ma credo che si svilupperanno delle alternative a questi servizi, che col tempo prevarranno. Che possano esistere certe forze di mercato che impediscano a queste alternative di formarsi, è un'altro discorso. Ma personalmente sono ottimista, credo che questo non avverrà”.

Assange in attesa di estradizione. Bradley Manning in carcere da più di due anni negli Usa senza processo. Cosa resta dell'esperienza di WikiLeaks e quali sono gli insegnamenti che ne possono trarre altri aspiranti whistleblower?

“Sono molto coinvolto nella questione WikiLeaks. In effetti, faccio parte di un gruppo di lavoro che si occupa di esaminare i cables olandesi, più di 6mila documenti per un totale di 28mila pagine. Il problema è: cosa ce ne faremo di tutti questi Big Data? Ci sono abbastanza giornalisti investigativi ed esperti per far sì che tutte le informazioni possano essere vagliate? Il modello WikiLeaks consente di diffondere grandi quantità di dati, ma non dà abbastanza garanzie che questi possano essere interpretati. Credo inoltre che la strutturazione centralizzata di WikiLeaks sia stata in parte un'occasione persa: sarebbe stato forse meglio sviluppare la piattaforma, secondo dei chapter nazionali. Questo perché lo sviluppo e la manutenzione di questa piattaforma sono molto complicati dal punto di vista tecnico e anche perché le persone devono avere fiducia in te, devi poter garantire a persone vulnerabili, che corrono dei rischi nell'affidarti il loro materiale, che sei un partner affidabile. E questo sarebbe forse stato più facile operando a livello nazionale”.

(Credit per la foto: Ars Electronica @flickr)

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