Il digitale», raccontava qualche tempo fa Richard Nash, «è il regno del sampling». Ed è probabilmente vero.
La prima cosa che scopri, iniziando a leggere ebook, è la possibilità di scaricare un libro, cominciare a leggerlo e poi dopo un certo numero di pagine decidere se comprarlo o meno, cliccando su un bottone o un link.
Da lettore questa opzione ha completamente modificato le mie abitudini di acquisto. Da autore, se dovessi scrivere oggi un nuovo libro, ragionerei molto su come «giocare con il lettore» nelle prime pagine del testo per innescare quel rapporto di complicità e interesse che poi conduce alla voglia di leggere ancora.
L'Atlantic, prendendo spunto da un articolo del Telegraph di cui avevamo parlato qualche settimana fa, racconta che «diversi narratori stanno cominciando a ragionare in maniera differente sull'impostazione delle trame dei romanzi, proprio per sfruttare la capacità di ingaggiare l'attenzione del lettore nel primo 10% del testo», esattamente quella porzione che si scarica gratis e che porta alla decisione di acquisto.
«Gli scrittori che lavoreranno in questo modo», continua Alan Jacobs, l'autore dell'articolo, «saranno sempre di più e tenteranno di calcolare con precisione come inserire gli elementi che portano al "Dio mio chissà come va a finire"». Leggi tu stesso, il titolo è: Will Kindle's Free Samples Change the Structures of Plots?.
La tecnologia ha sempre influenzato il modo in cui scriviamo. Lo stesso Jacobs, citando Steven Johnson, ricorda che da tempo si ragiona su come ottimizzare i libri per Google, esattamente come facciamo quando pensiamo un testo per essere pubblicato online.
Ma anche nel passato le tecnologie disponibili hanno contribuito a definire i prodotti della scrittura. Il caso più famoso, se vogliamo, è quello del feuilleton, del romanzo d'appendice. Nato e strutturato per uscire in piccole parti sui quotidiani, veniva progettato per concludere ogni capitolo in modo da mettere curiosità sugli eventi successivi. Ed ebbe un ruolo importantissimo per avvicinare le masse alle lettura (oltre che per far vendere più giornali). Molti classici di oggi, dai "Tre Moschettieri" ai "Miserabili", sono passati per questo processo.
Ma le influenze della tecnologia sul modo in cui scriviamo sono anche più profonde. In un saggio di qualche tempo fa, Anne Trubek spiegava come «la scrittura a mano sia semplicemente troppo lenta per i nostri tempi e le nostre menti». Al contrario, quella che la Trubek chiama la «scrittura a tocco» (attraverso la tastiera), «è un glorioso esempio di automatismo cognitivo, la velocità di esecuzione che si armonizza con la velocità di cognizione».
Le argomentazioni sono interessanti e ricche di spunti: Handwriting Is History.
Poi c'è il capitolo «distribuzione», che può essere anche portatore di sviluppi degni di riflessione. I social network sono il principale canale di distribuzione dei contenuti, nell'universo digitale. Se abbiamo già in qualche modo codificato come scrivere per Google, si comincia a notare che sempre più persone alfabetizzate per il digitale iniziano a scrivere tenendo conto -per esempio- di Twitter. In modi diversi, dalla struttura del titolo fino all'inclusione nel testo di frasi molto efficaci, lunghe meno di 140 caratteri, pronte per diventare dei money quote da far twittare ai lettori.
E la capacità del Kindle di far condividere sui social network i brani dei libri è una ulteriore forma di accesso alla distribuzione, che potrebbe -con il tempo- entrare nelle logiche di quello che oltreoceano chiamano il crafting, la progettazione e la costruzione del libro.
È tutto molto veloce ancora, ed è presto per provare a capire come il nuovo modo di leggere (e di avere accesso ai libri) cambierà il modo di pensare la scrittura. Ma è sicuramente utile, soprattutto per chi scrive oggi, cominciare a ragionare, ad avviare un confronto con queste nuove possibilità che la tecnologia abilita.
Come letture bonus, questa settimana, un pezzo del New York Times che rovescia la prospettiva dal punto di vista del lettore. Si intitola: The Way We Read Now (grazie a Pier Luca per la segnalazione). E, per tornare sul tema di cui avevamo parlato la settimana scorsa, un ponderoso articolo di Cory Doctorow sul Guardian: Copyright isn't dead just because we're not willing to let it regulate us.
Poi, per i più motivati, sempre dal New York Times un articolo assai interessante: Your Brain on Fiction.
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