Partendo da una recente pubblicazione di Mario Perniola, "Berlusconi o il 68 realizzato", edita da Mimesis nel novembre 2011, abbiamo chiesto al filosofo e professore ordinario di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata il suo punto di vista su alcune questioni riguardanti lo scenario politico attuale, il senso stesso del linguaggio politico e il valore della cultura e della bellezza nell'era della comunicazione mass-mediatica.
Mettendo a confronto i risultati della politica di Berlusconi con alcune istanze del movimento del Sessantotto lei ravvisa alcune impressionanti somiglianze: “Fine del lavoro e della famiglia, distruzione dell’Università, deregolamentazione della sessualità, discredito delle competenze mediche, ostilità nei confronti delle istituzioni giudiziarie, vitalismo giovanilistico, trionfo della comunicazione mass mediatica e oblio della storia”. Ripensando ai vari movimenti per i diritti civili di quegli anni per un sapere libero e democratico, per la parità dei sessi, per il ripensamento di una scuola avvertita come prevaricatrice e obsoleta ci rendiamo conto che deve essersi trattato di un grande e terribile cortocircuito. L’impressione è piuttosto che Berlusconi sia riuscito a stravolgere alcuni termini che associamo al Sessantotto, rivestendoli di un significato nuovo, come se questi fossero contenitori vuoti da riempire di nuova materia. Com’è potuto accadere?
La nozione che risulta più utile a comprendere il rapporto tra Il Sessantotto e Berlusconi è quella di affinità elettiva. Questa espressione è entrata nel linguaggio della sociologia grazie a Max Weber, il quale ha sostenuto l’esistenza di tale rapporto tra le origini del capitalismo e il protestantesimo, due fenomeni che a prima vista non hanno nulla che fare l’uno con l’altro, anzi si presentano come opposti.
Proprio qui sta il punto: è implicito nell’idea affinità elettiva il fatto che esista una distanza, uno scarto culturale, una discontinuità ideologica. I sociologi hanno adoperato questa nozione per spiegare altri interessanti connessioni apparentemente incomprensibili: per esempio, tra l’utopia anarco-comunista e la tradizione ebraica messianica nella Germania degli anni Venti, tra il darwinismo e liberalismo negli USA, o ancora tra marxismo e cristianesimo nella teologia della liberazione sudamericana. Insomma non bisogna essere ingenui, ma praticare quell’esercizio del sospetto inaugurato dalla filosofia da Hegel e continuato da Marx, Nietzsche, Freud e da altri fino a Rorty.
Leggendo il suo pamphlet mi è venuto più volte in mente un libro di Ernesto Laclau, La ragione populista, nel quale il populismo viene interpretato non come una degenerazione malsana della politica ma come una caratteristica fondante il linguaggio politico stesso. E’ d’accordo? Nell’era della comunicazione mass-mediatica è possibile secondo lei prescindere dalla comunicazione populista per fare politica?
Non identifico la democrazia col populismo più di quanto non identifichi la monarchia col dispotismo.
A tal proposito: cosa pensa di movimenti come l’onda arancione di De Magistris e Pisapia? Rientriamo ancora nella sfera del populismo illusorio oppure può trattarsi di esempi di vera democrazia partecipativa?
Non so cosa pensi l’arcivescovo Luigi de Magistris sulle onde e sul populismo. Quanto a Gian Domenico Pisapia si rifiutò di prestare giuramento al Partito Nazionale Fascista e quindi certamente non amava le camicie nere e nemmeno quelle grigie; non so se amasse l’arancione. Quanto a persone, forse più note, che portano lo stesso cognome, sono certo che non vogliono essere destituibili ad ogni momento dai Consigli degli operai e dei contadini.
Crede che la pesante ingerenza della Chiesa cattolica sull’opinione pubblica abbia avuto una parte nel continuo discredito degli intellettuali, portato avanti con grande costanza dalle politiche di Berlusconi?
No. Il discredito degli intellettuali è un fenomeno che è avvenuto all’interno della Chiesa, dal momento in cui ha ritenuto di poter fare a meno dei filosofi cattolici (che costituivano un ponte con la società civile) e dei teologi. Ciò è avvenuto in Italia già negli anni Settanta ma questa tendenza si è rafforzata negli anni Ottanta del Novecento, forse sotto l’influenza della Rivoluzione islamica, nella quale il clero si è rivolto alla società senza ricorrere a mediatori.
Crede che un governo dell’austerità e del rigore come quello di Monti sia solo una parentesi? Intravede il rischio di un ritorno di Berlusconi o crede che si aprano scenari del tutto nuovi?
Niente mai ritorna tale e quale: perfino nel pensiero più “abissale” di Nietzsche, l’“eterno ritorno”. Il ritorno dello stesso non è il ritorno dell’uguale, come ho mostrato nel mio libro Transiti (Roma, Castelvecchi, 1998).
Nel suo libro lei auspica un ritorno “all’insegnamento dell’antichità classica e cristiana”. Che cosa possono insegnare ancora e in che modo?
L’Occidente è una cosa molto complicata perché qui si incontrano e si scontrano cinque diverse culture: la greca, la romana, l’ebraico-cristiana, la germanica e l’islamica. Penso come Machiavelli: la forza delle nazioni sta nel ritorno alle origini. Per noi italiani, da duemila anni è stata sempre l’antica filosofia stoica a costituire la base culturale della classe dirigente. Il guaio è che nel corso dell’ultimo secolo sono arrivate al potere persone che non avevano più questa formazione umanistica, fino a scomparire quasi completamente negli ultimi tempi. Tuttavia, questa potrebbe anche essere soltanto una parentesi, dovuta all’influenza dell’americanismo. In realtà l’Europa è una penisola appartenente al continente asiatico, come disse Paul Valéry.
Quale spazio rimane per la bellezza nell’epoca del riproducibile, dell’usa-e-getta, dell’ostentazione?
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