Fino a che punto nazismo e comunismo possono essere considerati ideologie contrapposte e alternative? La domanda, che a prima vista sembra oziosa, nasconde in realtà molte insidie, e parecchi sono i pensatori che l’hanno formulata a partire dalla seconda metà del ’900 sino a oggi. Eppure, ogni volta che si tocca l’argomento, agli esponenti della sinistra – siano essi intellettuali o politici (oppure entrambe le cose) – saltano i nervi. Il quesito, invece, è tutt’altro che peregrino e va preso sul serio. Si tratta di appurare se è possibile individuare una sorta di “matrice comune” che lega tra loro filosofi in apparenza diversissimi quali Marx, Nietzsche, Heidegger, Lukàcs e Spengler.
Notiamo allora che è errato considerare progressisti “tutti” i progetti utopici, poiché esistono anche utopie regressive e conservatrici. La filosofia occidentale da Platone in poi è attraversata da un filone anti-individualista che predica il ritorno a una società organica, armoniosa e priva di conflitti, dando ovviamente per scontato che essa sia in effetti esistita, anche se il suo ricordo si perde nella notte dei tempi. Com’è noto Popper ha sostenuto che a tale filone appartengono non solo Platone, ma anche Hegel e Marx. Sul versante opposto troviamo invece le correnti paladine dell’individualismo, e quindi i sofisti, i rappresentanti dell’Umanesimo, illuministi e empiristi. La scelta è tra l’unanimismo di stampo platonico da un lato, e la difesa del dissenso e del pluralismo dall’altro.
Si noti in primo luogo che non può esistere alcuna società umana senza conflitti: come ha notato lo stesso Popper, essa sarebbe “una società non di amici ma di formiche”. Dobbiamo quindi accettare i conflitti di valori e di principi; non solo per la loro fecondità, ma anche perché costituiscono la vera garanzia dello sviluppo dell’individuo. Aveva dunque ragione Isaiah Berlin a battersi contro le concezioni - come il marxismo - secondo cui esistono soluzioni definitive ai problemi dell’umanità, e per di più realizzabili “qui e ora”. In realtà le soluzioni finali sono realizzabili con successo soltanto nella mente, poiché lo studio della società mostra che ogni soluzione crea situazioni nuove le quali, a loro volta, generano nuovi bisogni, nuovi problemi e nuove domande.
Occorre poi negare che vi siano leggi dello sviluppo storico di portata universale, come quelle rintracciabili nei grandi sistemi di filosofia della storia elaborati da Hegel, Marx, Engels e Spengler. Quando si afferma che la storia ha un “significato” e uno “scopo”, si presuppone che tutto ciò che appartiene alla dimensione storica sia, oltre che comprensibile, anche giustificato. Una filosofia della storia, nelle vesti in cui venne concepita in particolare nell’800, è possibile soltanto se si presuppone che la storia finisca, poiché solo in quel caso il suo significato può essere compreso in termini globali. Tuttavia in qualsiasi epoca gli uomini sono in grado di avere una coscienza soltanto parziale del divenire: si tratta di una coscienza legata al particolare periodo in cui essi vivono. Il significato globale della storia - e il significato complessivo della loro stessa epoca - sono entità che sfuggono a esseri limitati come noi, che assai spesso non possono neppure discernere le conseguenze delle loro azioni. Pertanto una vera filosofia della storia può aversi solo con il conseguimento di una conoscenza molto più perfetta di quella in nostro possesso.
E’ essenziale a tale proposito riportare che cosa afferma Isaiah Berlin a proposito delle concezioni - come appunto il marxismo - le quali hanno in comune l’idea che esistano soluzioni definitive ai problemi dell’umanità, che sia possibile scoprirle e, con una dose sufficiente di altruismo, realizzarle sulla terra. Egli ci racconta che, in gioventù, aveva molto meditato sulle opere di alcuni scrittori russi, e in primo luogo su “Guerra e pace” di Tolstoj. Iscrittosi in seguito all’Università di Oxford, aveva poi ritrovato queste stesse idee nelle opere di molti filosofi, anche se v’erano notevoli differenze sia sul modo in cui tali soluzioni potevano essere scoperte, sia sui mezzi che occorreva porre in atto per realizzarle. Platone, per esempio, pensava che una élite di saggi dovesse essere investita del potere di governare gli altri - i meno dotati - attenendosi a schemi dettati dalle giuste soluzioni dei problemi. I razionalisti del ’600, dal canto loro, ritenevano che le risposte fossero rintracciabili grazie a una speciale applicazione del “lume della ragione” di cui tutti gli uomini sarebbero in quanto tali dotati.
A un certo punto Berlin si rese conto che tutte queste concezioni hanno in comune un ideale platonico. Come nelle scienze, tutte le domande autentiche hanno una e una sola risposta vera, le altre essendo necessariamente errate. Deve esistere una via attendibile e sicura per pervenire alla scoperta di queste verità. Le risposte vere, quando sono state trovate, a loro volta devono essere necessariamente compatibili tra loro e formare un tutto unico, perché una verità – secondo tale modello - non può essere inconciliabile con un’altra. Questo tipo di onniscienza diventa la soluzione del puzzle cosmico.
Al summenzionato ideale platonico Berlin contrappone le concezioni di due filosofi che lo hanno profondamente influenzato, Vico e Herder, secondo i quali ogni società possiede una propria visione della realtà, e le visioni variano di volta in volta, passando da un assetto sociale a quello successivo. Non esiste, in altri termini, una scala ascendente che porti dagli antichi ai moderni. Non si tratta tanto di relativismo culturale e morale, quanto di pluralismo, secondo il quale sono molti e differenti i fini cui gli uomini possono aspirare, senza che vengano meno la razionalità e la capacità di comprendersi. E’ dunque il pluralismo dei valori a costituire il tratto distintivo della storia umana.
Il filosofo inglese sapeva benissimo che il quadro da lui delineato può sembrare “insipido” se paragonato a quelli tracciati dagli utopisti. E tuttavia, rammentando che l’uomo è intrinsecamente fallibile, giudica di gran lunga preferibile ricorrere ai cosiddetti “trade-offs”, alle concessioni reciproche, piuttosto che avventurarsi sul pericoloso sentiero che conduce a stabilire una scala di valori assoluti. La ricerca della perfezione – egli scrisse –sembra una ricetta, una via obbligata che porta allo spargimento di sangue; e le cose non migliorano se a dettare la ricetta è il più sincero degli idealisti, il più puro dei cuori. Non è mai esistito un moralista più rigoroso di Immanuel Kant, ma anche lui, in un momento di folgorazione, disse: “Dal legno storto dell’umanità non si è mai cavata una cosa dritta”.
Berlin riconosce senz’altro a Marx e a Hegel il merito di aver in fondo compreso che non vi sono verità perenni, in quanto gli orizzonti umani mutano con il procedere dell’evoluzione storico-sociale. Ciò nonostante, Marx si fece comunque imprigionare dai sogni di perfezione terrena e di redenzione globale, ragion per cui egli finì col postulare una vittoria finale della ragione, vittoria che avrebbe condotto a un’armoniosa collaborazione universale e all’inizio della “storia vera”.
lunedì 13 febbraio 2012
Cos'hanno in comune Marx, Nietzsche, Heidegger, Lukàcs e Spengler? | l'Occidentale
via loccidentale.it
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