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sabato 18 febbraio 2012

L’eccitazione perpetua - Europa

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C’è eccitazione – e tanta – nell’aria delle nostre società liquide. A tal punto da indurre il filosofo tedesco Christoph Türcke a scriverci sopra un saggio ponderoso, La società eccitata (Bollati Boringhieri, pp. 352, euro 43; trad. di Tomaso Cavallo), che delinea una filosofia della sensazione e dell’eccitabilità, elette a cifre ermeneutiche di quanto ci sta, tutti i giorni, e in modo sempre crescente, sotto gli occhi. Una slavina inarrestabile quella di cui l’autore, professore di Filosofia all’Accademia di arti visuali di Lipsia, si fa detective e quasi entomologo per l’accuratezza tassonomica con la quale è andato a classificare tutto ciò che rende queste nostre società complesse anche alquanto sovreccitate. E il campionario appare dovizioso, anzi ricchissimo.
Da buon (e idealtipico) intellettuale tedesco Türcke manifesta una certa propensione per la sistematicità e ci consegna un volume che segue, passo dopo passo, lungo la modernità e, soprattutto, la postmodernità, l’impressionante scivolamento semantico che porta la “sensazione” dal significato originario di percezione e impressione sensibile al ventaglio compreso tra lo spettacolare e lo sconvolgente, ovvero a ciò che si rivela in grado (e si propone, potremmo dire, programmaticamente) di attirare irreversibilmente l’attenzione. Prendendo le mosse, letteralmente, dai primordi, ossia da quell’età delle caverne i cui abitanti si sforzavano di tenere le emozioni sotto controllo, fondamentalmente mediante l’iterazione e la ripetizione: i graffiti rupestri, effigiando le fiere contro cui i nostri progenitori si trovavano quotidianamente (e assai pericolosamente) ad avere a che fare, rappresentavano un modo per “controllare” queste esperienze sensazionali che sfociavano nel trauma.
Di fronte alle nevrosi traumatiche – abbondantemente analizzate da Sigmund Freud (cui è consacrato un capitolo del volume) – l’homo sapiens mise in campo una “coazione a ripetere” che divenne istitutrice di cultura, e nell’ambito della quale si colloca anche la dinamica salvifica del sacrificio su cui si arrovellò un famoso storico delle religioni, l’autore de Il sacro Rudolf Otto.
L’arma (in verità neanche tanto) segreta cui ha fatto ricorso l’umanità nel corso del suo processo di incivilimento, quindi, ha coinciso precisamente con il depotenziamento della sensazione, che ha raggiunto, come mostra il filosofo, le sue punte massime nelle stagioni del Rinascimento e dell’Illuminismo europei. Successivamente, nella seconda metà del XVIII secolo, all’indomani di quell’evento scioccante e tremendo – a tal punto da mettere duramente in crisi la fiducia nei Lumi e nella Ragione e da scatenare un dibattito culturale intensissimo – che fu il terremoto di Lisbona del 1755, si accese il dinamismo semantico della parola “sensazione”, la quale finì per connotarsi, in varie lingue del Vecchio continente, come “scandalo”, “fermento” e “inquietudine”.
Un’escalation linguistica che faceva il paio, a giudizio di Türcke (impegnato in un esercizio serrato di “fisioteologia” e di genealogia intellettuale della sensazione), con quella sociale: la società borghese lasciava i lidi della sociabilità (in seno alla quale era nata la categoria stessa di sfera e opinione pubblica) per lanciarsi nella direzione della fiera e del “circo Barnum”; in buona sostanza, di quello che possiamo, a giusto titolo, chiamare sensazionalismo.
Un progresso? Non proprio. Secondo lo studioso tedesco anche la Rivoluzione francese rientrava in questa alba di irrequietezza e fermento, ma il processo ha rapidamente assunto tratti che ne hanno di gran lunga trasceso i principi ispiratori (archiviando, in particolare, la sostenibilità e l’idea stessa di rivolta). Il fenomeno, il quale col passare del tempo ha assunto carattere sempre più spinto, rappresenta l’effetto di una massificazione – che alcuni ritengono (addirittura) una forma di democratizzazione – ed è, soprattutto, l’esito di una certa visione del mercato che arriva al parossismo con l’attuale neoliberismo. Siamo allora in presenza di un autentico «regresso storico-universale», anche nel senso, filologico, del ritorno a una «preistoria della sensazione» secondo la lettura cronologica e interpretativa scelta dall’autore. La rivoluzione ipertecnologica si tinge così dei colori di un regresso arcaico e l’esistenza di punti di contatto (l’eterno ritorno...) tra premoderno e postmoderno è una chiave euristica che si sta finalmente diffondendo, mostrando, a nostro avviso, parecchi elementi convincenti. L’eccitazione e l’inquietudine novecentesca trovano il loro centro elettivo, naturalmente, negli Stati Uniti, e la loro forza propulsiva in quello che il filosofo chiama lo “shock audiovisivo”, generatore del bisogno di “sensazione assoluta”.
È quella di cui si fa vettore la “pubblicità scatenata” e sempre più coinvolgente ed emozionale (o emozionante), per la cui analisi Türcke rispolvera l’armamentario concettuale della Scuola di Francoforte (che ha ancora parecchio da dire, a dispetto di taluni aspetti rétro). Come pure la frizzante e irrequieta Silicon Valley che occupa, con la sua inesauribile produzione di strumenti e apparati high tech, il nostro immaginario più recente. Ma la sensazione assoluta opera, all’insegna della medesima logica, anche all’interno di fenomeni apparentemente diversissimi, se non incommensurabili, come il piercing, la tossicodipendenza e l’integralismo religioso e, come si diceva poc’anzi, il fondamentalismo di mercato. E, se non ci si vuole inabissare così in profondità, in ogni caso, evidenzia il filosofo, sono pronti i vari surrogati sensitivi assicurati dai piaceri virtuali e internettiani (come le tute per il cybersex).
A tornare quindi in voga, nella contemporanea società eccitata, è, in definitiva, il principio esse est percipi, traslato, perché questi sono i tempi, dall’empirismo di George Berkeley alle voyeuristiche case, universalmente diffuse, del Grande Fratello televisivo. Mentre latita, sempre di più, l’esperienza autentica. Grande (e sovreccitata) è così la confusione sotto il cielo, ma la situazione, ci mette sul chi va là Türcke, non si rivela per nulla eccellente. A meno di «azionare il freno d’emergenza» rispetto alla “mobilitazione totale” del nostro sistema nervoso, e di accendere qualcuno dei “controfuochi” (sì, proprio quelli di cui parlava Pierre Bourdieu), riscoprendo le sensazioni recondite, quelle che non vogliono essere sbattute in prima pagina o nel prime time del tubo catodico. Quelle che, senza bisogno di invocare eccessi (anch’essi un po’ regressivi) di ascetismo, ci permettono di tenere desta la capacità riflessiva e lo spirito critico. E, quindi, di salvarci, almeno un po’.
Massimiliano Panarari

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