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giovedì 16 febbraio 2012

Quali rischi per un’etica senza Dio? Commento a Engelhardt… | UCCR

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«Secolarizzazione e bioetica» è il tema della relazione che il filosofo americano Tristram H. Engelhardt, uno dei più importanti bioeticisti del mondo, direttore del Journal of Medicine and Philosophy, ha tenuto a Torino. L’intervento del filosofo ha portato alla ribalta un tema naturalmente complesso ma decisivo per la nostra salvezza e la nostra sopravvivenza. La domanda potrebbe essere formulata in questo modo: possiamo avere un’etica senza Dio e senza un fondamento assoluto? Per il filosofo in questione, tutte le etiche che prescindono da un fondamento assoluto e incontrovertibile come quello del Dio rivelato, ad esempio, diventano solo delle mere narrative contingenti storicamente e culturalmente condizionate ma la questione è assai complessa. La risposta a prima vista per noi credenti, semplice e immediata, diventa inaccettabile per i nostri tempi. Ma perche? Possiamo solamente tratteggiare appena alcune linee essenziali della contemporaneità, la prima delle quali è definibile linea del Dispotismo del Desiderio e del Dispotismo dell’individualismo.

Tramontate tutte le ideologie, le verità forti e le grandi narrazioni, assistiamo da alcuni decenni alla elefantiasi del soggetto e delle sue pretese al godimento continuo, e ad una estetizzazione diffusa della sua esistenza che prescinde da qualsiasi eteronomia e da qualsiasi tradizione veritativa o storica. Il soggetto consuma in solitudine l’affrancamento totale e irreversibile da un plesso fino a poco fa indisgiungibile tra la realizzazione della propia esistenza e le norme da seguire per raggiungerla. Il soggetto postmoderno ha fagocitato qualsiasi legge morale trasmessa dalla tradizione dei nostri padri e si è liberato dal Dovere e da costrizioni esterne. Libero da e libero di, il soggetto si muove ora nella completa anarchia in una situazione di anomia da un lato e di distopismo dall’altro, libero solo di seguire le propie mozioni endogene, mancanza di legge e di utopia o di semplice futuro inteso come il luogo della propria emancipazione progettuale, e quindi libero anche da qualsiasi escatologia secolare o religiosa. L’uomo (se ancora di umano si puo parlare) è in balia del potere libidico e distruttivo del desiderio impazzito che consuma se stesso fino all’autodistruzione, il soggetto consuma nella sua voracità la fine del legame etico ed intersoggettivo. Senza un’etica condivisa, tuttavia, non c’è piu spazio per la comunità come luogo dell’accadere dell’incontro, esiste solo da un lato il vissuto desiderante anarcoide e dall’altro il diritto positivo che serve solo a regolamentare e disciplinare, ma solo nei limiti appena consentiti, la sua possibile degenerazione. I freni regolatori consistono non piu in norme morali religiose o laiche ma solo nella paura dell’infrazione e della relativa pena…

Ma, per concludere questa piccola analisi fenomenologica ed eziologica, cosa vediamo nella società dei diritti che ha destituito e detronizzato il diritto inteso come ius, come espressione di leggi non scritte ma sentite e vissute nella loro connaturalità paticamente vissuta? La società che ha rinunciato allo ius (preso nella sua singolarità), che è a sua volta la base dello iustum, dell’uomo giusto, ha rinunciato anche allo iussum comandato come comandamento; è una società in preda all’angoscia più profonda, alla disperazione più totale. E’ una società liquida che ha rinunciato alla tradizione e a Dio, e si ritrova sola e consumata dal suo stesso desiderio impazzito. L’uomo non può vivere da solo, ha bisogno di Dio e della trascendenza. Dobbiamo solo noi, credenti, resistere saldi e comunicare la dolcezza del nesso tra libertà e obbedienza, tra dovere morale e felicità. Kant intuì nella postulazione del concetto di Dio, anima e libertà, la necessità per l’etica di un principio assoluto che giustifica il bene e il dovere ottemperato e la sua futura gratificazione. Dobbiamo rappresentare per le etiche particolari, frutto di culture contingenti ed effimere, il fondamento certo e inamovibile della nostra stessa vita, la Verità è per noi cristiani non una cosa, non un’ideologia, non una mera corrispondenza del concetto, ma qualcosa che rimane a dispetto di tutto ciò che cambia, un’esperienza che fonda e libera l’uomo dall’angoscia della sua solitudine. L’uomo non è “una passione inutile” come voleva Sartre, ma è un dono di Dio che si trova immerso nel mondo a sua volta donato. La verità dell’etica cristiana non può essere fondata, ma fonda essa stessa anteriormente la nostra coscienza etica e può solo essere comunicata nella testimonianza diretta come comunicava per noi Cristo con la sua prossimità. Vivere la fede significa rendere tangibile e operosa la nostra etica.

Oggi non possiamo più eludere questa scelta tra l’imperialismo del desiderio distruttivo, effimero, nichilista, teso alla soddisfazione e all’appagamento continuo nell’istante, e la scelta etica come rispetto di leggi immutabili che conducono l’uomo verso il prossimo. Vivere eticamente è primariamente vivere in una logica opposta a quella del mondo (pensiamo alla cristologia giovannea: “chi è del mondo non è di Dio”), laddove la forza, la violenza, il desiderio di potenza e le verità deboli o il non senso, trionfano. L’etica semina con il suo altruismo, la sua compassione, il suo amore per gli ultimi, la sua carità, la sua fede e la dolcezza della verità che permane….dobbiamo essere il sale del mondo, solo ancorarsi a Dio può rendere l’etica capace di umanizzare lo scenario tragico della contemporaneità. Dobbiamo proporre al mondo di elaborare etiche capaci di fare i conti con Dio e spingerlo a impegnarsi nella necessaria traduzione simbolica del contenuto della religione…perché solo un’etica che fa i conti con Dio può veramente salvare l’uomo in deriva da se stesso.

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