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mercoledì 29 febbraio 2012

Oetzi, la mummia con il colesterolo alto - Wired.it

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Oetzi, la mummia con il colesterolo alto
Capelli e occhi castani, intolleranza al lattosio e arterosclerosi. Ecco i nuovi dettagli che i ricercatori hanno tratto dal genoma dell'uomo di Similaun. Che 5mila anni fa soffriva dei nostri stessi acciacchi
28 febbraio 2012 di Emanuele Perugini
Oetzi, l’ uomo di Similaun, non fumava. Lui, 5mila anni fa, correva su e giù per le montagne e non faceva come noi che spendiamo le nostre giornate davanti a un computer o a una televisione. Figuriamoci poi, se nel corso della sua vita, gli sia mai capitato di mangiare hamburger, oppure cornetti e maritozzi con la panna. A quei tempi, se gli andava bene, al massimo poteva aspirare a costolette di stambecco e pane, quasi sicuramente non lievitato e certamente senza olio. Respirava a pieni polmoni aria priva di smog e si abbeverava solo a fonti e sorgenti di acqua pura e incontaminata. Poi, dal momento che era allergico al latte, non poteva nemmeno mangiare formaggi e burro. Insomma aveva davvero tutto per essere una persona in splendida salute e in forma. Non era infatti nemmeno sovrappeso.

Eppure nelle sue vene il sangue era già pieno di colesterolo e le sue vene erano parzialmente ostruite. Anche Oetzi, come noi soffriva infatti di arteriosclerosi e rischiava di morire per colpa di un infarto o di un ictus. Insomma i mali che affliggono oggi molti di noi, affliggevano anche gli uomini dell’antichità, anche quelli che, come Oetzi, il cacciatore delle Alpi, avevano uno stile di vita che molti medici suggeriscono oggi ai loro pazienti proprio per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari. A scoprire questo affascinante segreto custodito all’interno della mummia più antica del mondo sono stati i ricercatori dell’ Istituto per le Mummie e l’Iceman dell’Accademia Europea di Bolzano (Eurac) e dei due Istituti di genetica umana delle Università di Tubinga e dello Saarland. Il gruppo di scienziati ha infatti i risultati del sequenziamento del dna da diversi punti di vista. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista specializzata Nature Communications. Il genoma della mummia era stato decodificato già un anno e mezzo fa e ora arrivano ulteriori dettagli su questo nostro lontano antenato con il contributo della National Geographic Society (Usa), Life Technologies (Usa) e Comprehensive Biomarker (Germania).

Il puzzle del cacciatore ucciso appena sotto un ghiacciaio a pochi metri dal confine tra Italia e Svizzera sembra ora svelarsi completamente. Intanto il dato più sorprende è quello che riguarda il sistema cardiovascolare di Oetzi. Albert Zink e Angela Graefen dell’Eurac, Carsten Pusch e Nikolaus Blin dell’Università di Tubinga e Andreas Keller ed Eckart Meese dell’Università dello Saarland hanno infatti scoperto non solo che questo individuo era predisposto geneticamente a questo tipo di malattie, ma hanno anche trovato sul suo corpo tracce di arteriosclerosi. Era dunque già malato quando morì. “La conferma che questa predisposizione genetica fosse riscontrabile già ai tempi di Oetzi è rilevante perché mostra che le malattie cardiocircolatorie possono non essere legate alla civilizzazione.
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Mark Drasutis, Yahoo!: "Anche Facebook sarà rimpiazzato" - Wired.it

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C’è il sole, apri l’orto urbano - Wired.it

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Non possiedi un giardino, né un balcone ma vorresti tanto un orto urbano? Due francesi, Nicolas Barreau e Jules Charbonnet, hanno ideato un sistema per averlo ugualmente. Si chiama Volet Végétal, letteralmente "scuro vegetale", e riprende l'idea di giardino pensile. Si tratta di una struttura a cornice della stessa grandezza del telaio della finestra - anche se le misure indicate sul sito sono 110x150x120 centimetri - che contiene i vasi da coltivazione. La struttura, come un ponte levatoio, è fatta ruotare dall'alto verso il basso di 90 gradi oltre il davanzale. Il Volet Végétal, come spiegano i due francesi, “ comunica tra esterno e interno, collegando la dimensione pubblica con quella privata”. Il giardino pensile può essere anche ripiegato come uno stendino e tenuto vicino alla finestra oppure in posizione verticale, come una tendina vegetale.
Una cosa va detta: una volta costruito bisogna esser certi che il proprio Volet Végétal sia solido per l'incolumità dei passanti. Soprattutto se non si abita al piano terra.

lunedì 27 febbraio 2012

Vattimo e Lady Gaga, ma cosa vi ha fatto di male la metafisica? - LASTAMPA.it

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CULTURA
26/02/2012 -
Vattimo e Lady Gaga, ma cosa vi ha fatto di male la metafisica?

Lady Gaga
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Dopo l’accusa del filosofo,
la difesa: macché violenza,
è questa la “scienza che danza” ipotizzata da Nietzsche
FRANCA D'AGOSTINI
TORINO
C’è una sola cosa che odio più del denaro, ed è la verità»: così dichiarava Lady Gaga al concerto di Torino, qualche tempo fa. Naturalmente, ci si chiede se sia vero che odia la verità, e se sì, allora dovrebbe odiare quel che ha detto; d’altra parte, se non è vero, forse non odia né la verità né il denaro, o forse li odia ma non nell’ordine indicato... Ma che cosa spinge l’erede di Madonna a prendersela con la verità, una «vecchia gloria» della filosofia, uno dei cosiddetti «trascendentali», unum verum bonum? È interessante capire quel che intende Lady Gaga, perché anche i filosofi - dunque persone che professionalmente si occupano dell’unum verum bonum - a volte condividono il suo punto di vista, con dichiarata e consapevole indifferenza per la classica autocontraddizione che ciò comporta.

È il caso in particolare di Gianni Vattimo, che come si legge nei suoi scritti, e da ultimo nella Conclusione di Una filosofia debole (Garzanti), saggi in suo onore a cura di Santiago Zabala, di cui La Stampa ha anticipato uno stralcio il 23 febbraio, visibilmente odia il concetto di verità, e con esso il concetto di realtà, e più in generale tutto il sistema di pensiero che chiama «metafisica», il quale consisterebbe nel fare frequente uso di questi concetti tipicamente filosofici, e tenerli in gran conto.

A un primo sguardo, queste forme di avversione nei confronti di entità astratte e perciò sostanzialmente inoffensive sono perlomeno enigmatiche: perché prendersela con i concetti di realtà e verità, e non piuttosto con le persone che li usano male, spacciando per vero e reale tutto e solo quel che fa a loro comodo? E perché prendersela con la metafisica, addirittura sostenendo che, come Vattimo scrive, sarebbe all’origine «del dominio e della violenza»? Quando sento queste strane connessioni mi viene sempre in mente il dialogo che cita Hannah Arendt nel saggio sul Totalitarismo: «Gli ebrei sono stati la causa della grande guerra!»; risposta: «Sì, gli ebrei e anche i venditori di biciclette»; «Ma perché i venditori di biciclette?»; «E perché gli ebrei?». Allo stesso modo, quando si sente dire che la metafisica è all’origine della violenza e del dominio, consiglio di aggiungere: «Sì, certo: la metafisica e anche le equazioni di sesto grado»; e naturalmente, quando vi chiedono «perché le equazioni di sesto grado?», conoscete la risposta.

È chiaro che nell’intera vicenda c’è di mezzo un fraintendimento, un disguido terminologico. Vattimo si muove guidato da Nietzsche e Heidegger. Da Nietzsche eredita la visione della «metafisica» come una semplice e un po’ infantile visione della realtà, in base alla quale vi sarebbe uno strato profondo, detto «mondo vero» e uno strato superficiale, illusorio e non vero. È questa una forma di pseudo-platonismo che Nietzsche ricavava da una affrettata lettura di Schopenhauer, ma è difficile che ci sia in giro qualcuno che difende una simile posizione: sia esso scienziato o politico o artista o anche filosofo (forse qualche vescovo cattolico potrebbe avallarla, ma non so...).

Richiamandosi a Heidegger, Vattimo intende poi per «metafisica» ogni forma di dogmatismo o di rigido realismo tecnocratico. Ma questo linguaggio sembra essere una prigione più che un’opportunità. Oggi la parola «metafisica» viene per lo più usata per indicare una indagine filosofica (e perciò critica, e problematica) sui fondamenti della fisica (come le nozioni di causalità, tempo, spazio), o su ciò che è possibile o impossibile, o sui criteri in base a cui distinguiamo l’esistente e l’inesistente. Nessun rapporto con quella teoria del «mondo vero» che a Vattimo non piace. Anzi, a occhio, l’attuale confronto tra metafisici assomiglia molto a quel che Vattimo vorrebbe fosse la filosofia: «Costruire argomentazioni filosofiche cercando se non sia possibile individuare alcune certezze generalmente condivise». In effetti proprio la metafisica - per esempio quella di David Lewis, o quella del nostro Achille Varzi - oggi assomiglia molto alla «scienza che danza con piedi leggeri», ipotizzata da Nietzsche.

Tornando allora a Lady Gaga, ci accorgiamo di un altro e più importante fraintendimento. È verosimile che con «truth» Gaga non intenda ciò che si contrappone al falso, ma ciò che si contrappone al finto artistico: quel gioco di vere finzioni che guida ogni arte, rappresentativa o meno. Ora è chiaro che il nemico qui non è la «verità», ma piuttosto la tendenza repressiva di chi si appella a un presunto (e falso) vero per mettere a tacere le espressioni altrui. Ma se così è - e gli accenni all’arte nel testo di Vattimo fanno pensare che per lui sia proprio così - allora la prima operazione è sbarazzarsi una volta per tutte proprio di quel linguaggio filosofico a cui Vattimo resta ostinatamente fedele. Un linguaggio tutto pieno di impossibilità e limiti: dal «su ciò che non si può dire bisogna tacere» di Wittgenstein (ma ciò che non si può dire lo stabiliva lui) alla «fine della filosofia» (e della metafisica, e di una quantità di altre cose) annunciata da Heidegger, e da molti altri.

sabato 25 febbraio 2012

Trovato il neurotrasmettitore del gioco d’azzardo - Wired.it

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Trovato il neurotrasmettitore del gioco d’azzardo
Chi ne ha più degli altri reagisce alle perdite in modo meno traumatico, ed è portato a scommettere di nuovo
24 febbraio 2012 di Francesco Musolino
Norepinefrina o noradrenalina, ecco la cause delle nostre perdite finanziarie. Finalmente gli scienziati vengono in aiuto dei broker e dei giocatori accaniti, con uno studio che rivela il neurotrasmettitore che interviene per alleviare e rendere più tollerabili le perdite economiche, causando un meccanismo a catena, spesso autolesionistico.

Questo studio potrebbe essere soltanto il primo step per riuscire a produrre un farmaco capace di aiutare gli scommettitori incalliti ad affrontare il proprio problema. Ma, come rivela Julio Licinio, direttore del Molecular Psychiatry journal che ha pubblicato la ricerca, “questo neutrasmettitore potrebbe persino spiegare anche i crack in borsa del 2008 e la relativa crisi della City e di Wall Strett”. Lo stesso concetto di libero arbitrio, alla base della nostra società, sarebbe messo in crisi: “Evidentemente non è tutto così lineare e ci sono molte persone predisposte a prendere e perpetrare, certe decisioni”.

Lo studio è stato condotto da un team di ricercatori guidati da Hideiko Takahashi dell’università di medicina di Kyoto, su 19 uomini sani il cui cervello è stato analizzato con la PET (tomografia ad emissione di positroni) dopo che questi avevano scommesso d’azzardo. Il risultato? La norepinefrina (o noradrenalina) si è rivelato il neurotrasmettitore fondamentale per la risposta alla perdita di soldi.

Difatti, solo ai soggetti con bassi livelli di norepinefrina “in una parte cruciale del cervello”, è stata riscontrata la cosiddetta “avversione alla perdita”, ovvero una risposta emotiva ben più pronunciata dinnanzi alle perdite economiche rispetto ai guadagni. Viceversa, i soggetti cui sono stati riscontrati alti valori di norepinefrina, sono risultati meno sensibili al dolore derivante dalla perdita di denaro e dunque, potenzialmente più pericolosi se deputati a mestieri a stretto contatto con il denaro e gli investimenti altrui.

“Questa ricerca – afferma Derek Hill, professore di medica alla London College University – evidenzia il ruolo giocato dai neurotrasmettitori nella percezione complessiva del rischio economico e potrebbe condurre ad un farmaco capace di intervenire ad hoc”. Il prossimo passo? Lo illustra Alexis Bailey, docente di neurofarmacologia nella Britain Surrey University: “Dovrà essere analizzato il cervello dei giocatori patologici noti per comparare i loro livelli di norepinefrina con quelli dei non-giocatori. A quel punto potremo trarre le prime conclusioni vincolanti”.

foto: Corbis

Smart cities: a che punto siamo - Wired.it

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DAILY WIRED NEWS AMBIENTE
Smart cities: a che punto siamo
La città del futuro è connessa e intelligente: un rapporto analizza gli esempi più avanzati nel mondo. Mentre anche in Italia qualcosa inizia a muoversi
- Quanto sarà digitale Milano, con l'Expo 2015?
24 febbraio 2012 di Simone d'Antonio
Innovative, integrate, partecipate: sono queste le caratteristiche delle smart cities a cui Cittalia, il centro studi dell’ Anci, ha dedicato una pubblicazione che passa in rassegna le migliori esperienze a livello europeo e mondiale in occasione della conferenza Le smart cities dell’Anci che a Torino ha fatto il punto sul rapporto tra innovazione e sostenibilità delle città italiane. Se in Italia però la strada da percorrere sembra ancora lunga, finora per mancanza di visione strategica come per scarsità di investimenti (anche se il ministro Profumo ha appena promesso un fondo governativo di un miliardo di euro per consentire alle città di partecipare ai bandi europei in materia), in Europa e nelle Americhe sono numerose le città di medie dimensioni che hanno puntato sulle Ict per migliorare la qualità della vita dei cittadini e la gestione dei processi urbani.

Sono dodici in totale le città prese in esame dallo studio, che raffronta diverse tipologie di smart strategy e ne racconta gli effetti sui percorsi di sviluppo intrapresi dalle differenti amministrazioni locali. Se da un lato città come Amsterdam hanno varato strategie integrate capaci di avere impatto sulle emissioni urbane attraverso interventi di riqualificazione energetica di edifici pubblici e privati (grazie a smart meters e smart plugs capaci di ridurre nettamente il consumo di energia) abbinati a efficaci percorsi di partecipazione civica (come ad Utrechtsestraat, strada a basse emissioni riprogettata assieme ai residenti), capitali come Tallinn e Helsinki hanno invece puntato sulle Ict per raccogliere dati in tempo reale su traffico e mobilità cittadina con l’obiettivo di riprogrammare in tempo reale politiche e interventi pubblici. Lo stesso obiettivo punta a raggiungerlo anche la portoghese Paredes attraverso una rete di cento milioni di sensori che metteranno in rete le informazioni su illuminazione pubblica, consumi energetici dell’edilizia pubblica e privata e smaltimento dei rifiuti gestite da un sistema centrale di controllo. Rendere smart questa cittadina di 80mila abitanti del Portogallo settentrionale è una sfida non solo per i grandi player mondiali coinvolti nel progetto (tra cui Cisco e McLaren, che metterà a disposizione le tecnologie di controllo elettronico in uso sulle auto di Formula Uno) ma anche per le cinque grandi università presenti nel giro di novanta chilometri, nucleo di ricerca decisivo per questa nascente Silicon Valley mediterranea. Sul ruolo propulsivo dei centri di innovazione locali ha puntato da tempo anche Aarhus, la città danese che sta riqualificando il distretto tecnologico di Katrinebjerg per rendere fruibili ai residenti le innovazioni prodotte da università e imprese del territorio e si prepara a lanciare per il 2014 il Navitas Park, nuovo hub cittadino per ricerca e innovazione ospitato nel più grande edificio a basse emissioni dal paese progettato dalla Kjaer & Richter Architects.

Innovazione partecipata è invece la parola d’ordine seguita da città diversissime per dimensioni e storia come Gent e Monterrey, accomunate dalla costante azione di confronto con i cittadini sul ruolo delle Ict per il miglioramento della qualità della vita. Mentre nella città belga è stata la piattaforma crowdsourcing Mijn Digitaal Idee voor Gent a garantire la partecipazione di residenti, associazioni ed imprese su progetti innovativi in tema di e-government e mobilità da portare avanti, a Monterrey l’Observatorio ciudadano ha favorito la condivisione dal basso dell’azione comunale attraverso l’uso di strumenti digitali innovativi e partecipati.

Variegati anche gli approcci smart alla crescita urbana sperimentati dalle città statunitensi, pioniere nella realizzazione di piani d’azione energetici e alleanze con le grandi imprese maggiormente orientate all’innovazione. Tra queste Seattle, che in partnership con Microsoft consente ai residenti di tracciare online i propri consumi energetici, contribuendo così al raggiungimento degli ambiziosi obiettivi posti dal Climate Action Plan, che ha favorito risparmi quantificabili in oltre trecento milioni di dollari per cittadini ed imprese. A Houston l’accordo con l’Alvarion ha consentito l’estensione della rete 4G alla quasi totalità della sua superficie urbana, con riflessi positivi sulla gestione del traffico e dei servizi comunali mentre Portland sta collaborando con Ibm per valutare digitalmente l’interazione tra le diverse politiche comunali (dalla mobilità alla salute, ad esempio, nel progetto-pilota sull’interconnessione tra livelli di obesità ed emissioni inquinanti), prevedere scenari e riorientare le politiche locali al fine di ridurre le emissioni dell’80 per cento entro il 2050.

(Nella foto: Seattle. Ceredits: Getty Images)

Cremona, il cervello in tribunale - Wired.it

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Cremona, il cervello in tribunale
Per la prima volta in Italia, una condanna grazie ai risultati di un test neuroscientifico. Anche se non si può parlare di vere e proprie prove, spiega a Wired.it il neuropsicologo Giuseppe Sartori
24 febbraio 2012 di Anna Lisa Bonfranceschi
Non è una macchina della verità, anche se il paragone è quasi inevitabile. Si chiama Implicit Association Test, Iat, ed è un sistema per stabilire l’ attendibilità o meno dei ricordi (ma anche per studiare convinzioni personali e predisposizioni a particolari comportamenti). In un certo senso, è un metodo per capire la genuinità di un’affermazione. Affidabile al 90% circa: il che, se da una parte depone a favore dell’accuratezza del metodo, dall’altra lascia spazio sufficiente allo scetticismo. Che tuttavia non ha impedito allo Iat di essere utilizzato in un processo penale, nel quale, per la prima volta in Italia, le prove fornite dal test hanno contribuito a condannare un commercialista per molestie sessuali nei confronti di una stagista.

Nel Tribunale di Cremona si trovavano da una parte il professionista, dall’altra la ragazza, poco più che maggiorenne, che riferisce di aver subito delle molestie sessuali. Le due versioni, come spesso capita, sono discordanti. La procedura è da prassi: il magistrato Guido Salvini chiama in causa un neuropsicologo per stabilire se sia presente un danno psichico, come riferito dalla ragazza, e se questo sia realmente imputabile agli eventi al centro del processo. “In una normale perizia quello che si fa è quantificare il danno psichico. Il problema è che il questo può essere simulato, soprattutto quando in campo ci sono questioni economiche, con la persona lesa propensa all’accentuazione”, spiega a Wired.it l’esperto forense Giuseppe Sartori, docente di Neuropsicologia Clinica all’ Università di Padova, che ha svolto la perizia: “Il compito del perito non è solo quello di stabilire la reale presenza del danno psicologico, ma anche quello di appurarne il collegamento causa effetto con le questioni al centro del processo”.

Per farlo Sartori è ricorso anche all’ Implicit Association Test, uno strumento pensato per studiare la memoria autobiografica. In questo caso il sistema è stato impiegato per convalidare l’ attendibilità di un ricordo stressante, quale può essere appunto una molestia sessuale, spiega il professore: “Non ci si può basare solo sul racconto di una persona, occorre trovare delle conferme, per questo abbiamo utilizzato lo IAT”.

Tecnicamente il test si basa sui tempi di reazione necessari a classificare delle frasi rappresentative dei punti di criticità dei ricordi (per esempio additandole come vere o false), elaborati poi da algoritmi matematici. “ La logica è quella della compatibilità dei ricordi: minori sono i tempi di reazione, maggiore è l’attendibilità. È un po’ come accade quando si guida con le gambe nella giusta posizione o a gambe incrociate: nel primo caso le performance saranno sicuramente migliori che nel secondo, con i riflessi per così dire rallentati”, spiega ancora Sartori. In pratica, è come se si cercasse qualche conferma implicita, inconscia, meno controllabile quindi, di un ricordo riferito.
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Il manuale di censura di Facebook - Wired.it

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Sotto la superficie di Facebook si muove un esercito di moderatori incaricato di rimuovere i contenuti proibiti dal social network. Troppo numerosi per essere gestiti da Menlo Park, i censori sono spesso reclutati in outsourcing da grandi imprese come oDesk. E come per tutte le task force c'è bisogno di un manuale di censura che detti ciò che è giusto cancellare. Tutte queste informazioni sono contenute in un documento riservato diffuso da una freelance marocchina di 21 anni, costretta a lavorare come censore per 1 dollaro all'ora.

Nelle 13 pagine pubblicate si può davvero trovare di tutto: violenza, bullismo, odio razziale e pornografia. Tutte categorie di immagini e contenuti per cui scatta immediatamente la censura o la segnalazione diretta al team interno a Facebook. Ma esistono casi in cui anche foto del tutto innocue possono essere bollate come proibite. Per esempio, l'allattamento al seno è considerato alla stregua di un contenuto osé.

Una volta filtrato il documento, la risposta di Facebook non si è fatta attendere: " Per processare in modo rapido ed efficiente milioni di segnalazioni che riceviamo ogni giorno, abbiamo deciso di appoggiarci a società esterne per effettuare una classificazione iniziale di una piccola parte dei contenuti segnalati. Queste società sono soggette a rigorosi controlli di qualità e abbiamo implementato diversi livelli di tutela per proteggere i dati degli utenti che usano il nostro servizio. Inoltre nessun altra informazione viene condivisa con terzi oltre ai contenuti in questione e alla fonte della segnalazione. Abbiamo sempre gestito internamente le segnalazioni più critiche e tutte le decisioni prese dalle terze parti sono soggette a verifiche approfondite. I nostri processi vengono migliorati costantemente e i fornitori sono monitorati su base continuativa. Questo documento fornisce una fotografia dei nostri standard applicati a uno dei nostri fornitori". (Grassetto nostro, ndr)

Ecco i punti principali del manuale di censura.

Nudità e sesso
In questa categoria ricadono tutte quelle immagini considerate esplicite: no a giocattoli erotici, violenze sessuali, persone che utilizzano il bagno, immagini di corpi nudi (eccetto quelle a carattere artistico) e capezzoli (tranne quelli maschili). Deve essere per questo motivo che le immagini di allattamento sono inserite nella black list. Ci sono poi dei casi in cui i moderatori freelance sono obbligati a lasciare la decisioni nelle mani del team di Facebook. Si tratta di casi estremi come pedofilia, necrofilia e animalismo.

Droga e violenza
I contenuti che hanno a che fare con la marijuana vengono censurati solo se chi li posta è intenzionato a venderla. Per tutte le altre sostanze stupefacenti scatta il blocco a meno che non siano citate in contesti, medici, scientifici o accademici. Anche le immagini di violenza sono trattate con il pugno di ferro: proibiti i video di bullismo così come le scene di rissa. La censura scatta subito sui simboli d'odio, a meno che non vengano mostrati per essere condannati.

Privacy
In questa categoria ricadono tutti quei contenuti su cui i moderatori devono svolgere ricerche sull'autore prima di far scattare la censura. Sono proibiti infatti tutti i contenuti che rivelano dati personali di persone terze o immagini che li ritraggono in situazioni imbarazzanti. Di contro, se un utente posta una propria immagine in stato di ebbrezza, i censori non procedono.

Linguaggio proibito
Ci sono numerosi casi in cui moderatori devono agire sul confine di una invisibile linea di confine tra cosa accettabile e cosa non lo è. Accade soprattutto nel caso dei commenti scritti, dove le sfumature di linguaggio possono far pendere la bilancia della censura da una parte o dall'altra. In questo senso, gli inviti sessuali, le minacce e l'istigazione al suicidio vengono censurati solo se ritenuti intenzionali.

Movimenti politici
Il documento diffuso dalla freelance marocchina contiene numerosi riferimenti al Pkk, il partito in cui si riconosce parte del popolo curdo. Questa organizzazione ha intrapreso varie azioni di lotta armata contro la Turchia nel tentativo di rivendicare l'autonomia del Kurdistan, e non è tollerata dal governo di Istanbul. Di conseguenza è proibito mostrare immagini inneggianti al Pkk o al suo fondatore Abdullah Öcalan. Di contro è data piena libertà di attaccarli pubblicamente su qualsiasi bacheca.

L'escalation
Il manuale di censura indica inoltre tutti quei casi particolari in cui i censori devono passare la patata bollente al team di Facebook. Oltre ai casi citati in precedenza, spiccano i contenuti che ritraggono il rogo di bandiere turche, l'attacco al padre della patria Ataturk e la negazione dell'Olocausto. Nella lista rientrano anche e i contenuti che riguardano l'autolesionismo, le minacce a pubblici ufficiali o a capi di stato e i casi di bracconaggio su specie protette.

Il Giorno - Giorno dei ragazzi - Filosofia, un gioco che aiuta i bimbi a diventare grandi

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Milano, 24 febbraio 2012 - Da qualche anno fare filosofia con i bambini è una delle pratiche di tendenza nell'universo infanzia. Sul mercato, libri e laboratori creati apposta per indurre a pensare. Scettici? Dov'è è andato il nonno adesso che non lo possiamo più vedere? Dov'ero prima di nascere? Perché devo andare a scuola? Perché devo proprio vestirmi prima di uscire di casa? Dove abita Dio? Se i pargoli vi hanno posto domande simili hanno, molto banalmente, fatto della filosofia. E voi con loro, cercando di dare risposte.
Perché questo è la filosofia: interrogarsi su ciò che ci circonda e capita. Capite? Proprio i piccoli con i loro curiosi "perché" sono in realtà i primi filosofi! La curiosità è però inversamente proporzionale all'età, va scemando col passare del tempo. Per tenerla attiva occorre allenarla. E fare filosofia, porsi domande è uno dei metodi più semplici. Ma chi lo insegna? Dovere di mamma e papà, certo. E la scuola?
Qui in Italia si fa filosofia con la sua Storia, senza pratica. Sono poche le realtà, private o statali, in cui bambini e ragazzi sono portati a dialogare tra loro su un tema, si deve guardare all'eccellenza emiliana (e a chi ad essa si ispira), testimonianza concreta che tale percorso dà un alto valore aggiunto all'educazione, favorendo gli strumenti per saper pensare in modo autonomo rapportandosi con altre prospettive e punti di vista. Così, ecco nascere una terza realtà. A Milano, il gruppo i Ludosofici, ovvero Francesco Mapelli e Ilaria Rodella, filosofi under 30, da qualche anno organizzano laboratori per i piccolissimi, dai tre anni in su, nelle librerie e nelle scuole (www.ludosofici.com ).
Identità, diversità, diritti e doveri, concetto di tempo sono alcuni dei temi affrontati partendo sempre da una pratica concreta, disegno o semplice oggetto, "Come la scatolina tattile, fatta con materiali diversi per descrivere il proprio carattere" dice Mapelli. Usano invece le storie per introdurre le tematiche Alessandro Pisci e Pasquale Buonarota. Piemontesi, attori da sempre, dal 2005 hanno ideato "Favole Filosofiche", progetto di pratica filosofico-teatrale che usa la favola (in senso lato, può essere anche un aneddoto) come spunto iniziale per i laboratori a tema. Funziona così: nel punto cruciale la favola, recitata, viene interrotta e bambini e ragazzi (per lo più classi intere) sono invitati ad agire liberamente per concluderla; poi a ruota libera se ne parla insieme e tutto ciò che viene detto al riguardo, Pisci e Buonarota lo usano per la creazione di uno spettacolo teatrale, frutto in genere di un anno e mezzo di laboratori.
Dopo il cambiamento, le occasioni, la bellezza, la comunità, quest'anno è stato il tempo ad essere messo in scena, proprio per la prima "Settimana delle Favole filosofiche" (www.favolefilosofiche.com ), kermesse di grande successo appena conclusasi a Torino con la collaborazione della Fondazione Onlus Teatro Ragazzi e Giovani, fin dall'inizio partner del progetto. Ma a dimostrazione che tutto può essere usato per fare filosofia, Cinzia Figus, giovane filosofa e quasi giornalista, presso "Help Children & Families", centro culturale per famiglie bilingue di Milano, ha organizzato il "Piccolo cineforum filosofico": "Prima vediamo un film - dice la Figus - poi ne parliamo per una ventina di minuti". Così, con Zorba di 'La gabbianella e il gatto' si è parlato della possibilità di prendersi cura di qualcuno mettendo da parte l'egoismo e con 'Shrek' dei concetti di bellezza e bruttezza. Domani, alle 10, con 'Momo alla conquista del tempo' si discuterà, appunto, del suo scorrere inesorabile (www.helpc.it ).
di Teresa Bettarello

venerdì 24 febbraio 2012

Il fallimento del telelavoro - Wired.it

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Smartphone, tablet e connessione wireless non sono riuscite a trasformare il mondo del lavoro. Dal manager all'impiegato, tutti rimangono saldamente legati all'ufficio, quel luogo oscuro che molti odiano ma di cui non si può fare a meno.

Queste le conclusioni della tavola rotonda organizzata a Milano dalla Herman Miller. Il fatto che il padrone di casa progetti uffici non tragga in inganno: il fallimento del lavoro immateriale è stato ribadito anche da Marcello Albergoni, Senior sales Manager di LinkedIn. " Il nostro social network rende immateriale la ricerca di nuovi talenti o l'offerta di lavoro ma si sente ancora la necessità dell'incontrarsi di persona", racconta a Wired.it. " In Rete si selezionano i candidati e LinkedIn dà la possibilità di inviare proposte direttamente online ma è una scelta ancora minoritaria".

Anche in un'azienda fortemente proiettata verso la Rete come LinkedIn " si lavora con riunioni, incontri e conference call", conferma Albergoni, dimostrando come si debba condividere uno spazio con i colleghi. Dopotutto anche quando lavoriamo con un tablet o un computer è naturale mostrare al collega ciò che si ha sullo schermo, un gesto molto più forte di qualsiasi slideshow o condivisione di documenti in cloud.

Una posizione che trova il suo alfiere anche in Mark Catchlove, manager di Herman Miller ed esperto dell'ergonomicità del posto di lavoro. "I dipendenti non vogliono lavorare da casa per due motivi", spiega. " Primo: pensano che relegarli a casa sia una mera scelta economica dettata dal risparmio e ciò sminuisce l'azienda di fronte al dipendente. Secondo: i manager stessi sono sempre in ufficio, perché quindi i dipendenti dovrebbero lavorare da fuori?".

Se fino a vent'anni fa si profetizzava l'arrivo del telelavoro, oggi si assiste un'inversione di tendenza che ci riporta nel passato. Il cloud è fondamentale, tablet e smartphone rimangono centrali quando non si è in ufficio, ma il grosso del lavoro va svolto in un luogo condiviso che sia fisico. " Studi recenti hanno dimostrato come lo spazio antistante ai distributori del caffé è la più efficace sala riunioni delle aziende. Lì nascono le idee geniali", esordisce l'architetto israeliano Erez Ella.

Certo, non è detto che due persone nella stessa stanza parlino tra loro o collaborino, per questo si sta sviluppando una mentalità che dal lavorare ovunque fuori dall'ufficio sta portando al lavorare ovunque all'interno dell'azienda. Esempi illustri sono gli uffici di Google o di Facebook, spazi dove si è liberi di muoversi e di riunirsi. Una partita al biliardino o un prato in pieno sole spesso sono le migliori sale riunioni. " l problema è che le nuove genrazioni l'hanno capito ma i vecchi dirigenti rimangono saldi sulle loro posizioni", osserva Catchlove.

Per realizzare un'azienda aperta infatti c'è bisogno di un cambiamento anche nella gestione dei flussi produttivi. Non ci vuole molto, basta che i manager rinunciano alla loro "voglia di controllo totale a favore di un sistema che dia degli obiettivi e un tempo entro cui realizzarli", commenta Catchlove. La strada per raggiungere l'obiettivo dovrebbe essere affidata alle scelte del dipendente. Come all'università insomma dove si conosce la data dell'esame ma poi ognuno gestisce come vuole il tempo dedicato allo studio o alle altre attività.

Con un sistema del genere si supererebbe la paura di vedere i dipendenti su Facebook come dei perdigiorno, il tablet o lo smartphone permetterebbero di lavorare ovunque ma sempre all'interno dell'azienda. Anche in bagno, " un'altra insospettabile fucina di idee geniali", come nota Ella. " Dati alla mano, chi siede vicino al bagno produce più degli altri perché si prende più spesso delle pause e soprattutto incontra gli altri", conclude.

Tutti gli amanti delle pantofole si rassegnino: in ufficio si produce di più e si sta meglio e per staccare basta andare alle macchinette del caffé. O al bagno.

Caro maschio, non stai per scomparire - Wired.it

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Una storia vecchia e stabile (geneticamente) per 25 milioni di anni. Che lascerebbe ben sperare anche per il prossimo futuro, a dispetto di tutte le teorie catastrofiste che lo vedevano sulla via del tramonto, almeno dal punto di vista evolutivo. Le fosche previsioni sul cromosoma Y, quello che fa la differenza tra un maschio e una femmina, sono ora ribaltate da un gruppo di ricercatori del Whitehead Institute for Biomedical Research (Cambridge, Massachusetts) in uno studio pubblicato su Nature.

La teoria che vedeva il cromosoma Y come una porzione del genoma in via di estinzione, infatti era, finora, piuttosto accreditata. Giustificabile con un ragionamento semplice. Tutto ha inizio con l’origine stessa dei cromosomi sessuali ( X e Y, appunto) evolutisi da una coppia di semplici autosomi (cromosomi non sessuali). Questi, per mantenere diversità genetica e per evitare di accumulare mutazioni potenzialmente pericolose, si scambiano solitamente (e reciprocamente) dei geni, in un processo noto come crossing-over (che riguarda coppie di cromosomi omologhi).

Circa 300 milioni di anni fa, però, alcune regioni del cromosoma X avrebbero smesso di scambiare materiale con il cromosoma Y, che si era differenziato acquisendo la regione maschio specifica, la MSY, (Male-Specific region of Y chromosom). L’Y così, privato del crossing over, avrebbe cominciato in qualche modo a degradarsi, perdendo materiale genetico (tecnicamente per decadimento genetico). Con il tempo il crossing over con il cromosoma X sarebbe diminuito ancora di più, significando per l’Y la perdita di ulteriore materiale (l’X invece si sarebbe mantenuto in forma, continuando ad appaiarsi con il suo omologo X, nelle femmine).

Come conseguenza, la regione maschio specifica del cromosoma Y, la MSY, avrebbe mantenuto in circa 300 milioni di anni solo il 3% circa del materiale dei vecchi antenati, i cromosomi autosomici (l’equivalente circa di 19 geni su 600). Un trend che sembrerebbe segnare in maniera inequivocabile anche il futuro del cromosoma Y. Se non fosse che David Page del Whitehead Institute for Biomedical Research, a capo dello studio pubblicato su Nature, non avesse deciso di esplorare da vicino la questione, ricostruendo la storia evolutiva del cromosoma Y negli ultimi 25 milioni di anni, per cercare di capire effettivamente quanti geni della regione MSY siano stati persi in questo lasso di tempo.

Per farlo gli scienziati guidati da Page hanno sequenziato la regione MSY del cromosoma Y di un macaco rhesus (che dista, evolutivamente parlando, appunto 25 milioni di anni dalla specie umana) e l’hanno confrontata con quella della nostra specie. Paragonando i cromosomi i ricercatori hanno così osservato che negli ultimi 25 milioni di anni il cromosoma Y si è mantenuto piuttosto stabile, visto che rispetto a quello di macaco, quello umano sembra aver perso un unico gene ancestrale. Mentre quello di macaco negli ultimi 25 milioni di anni non ha perso neanche un singolo gene degli antenati.

“Il cromosoma Y era per così dire in caduta libera agli inizi della sua storia, e perse geni ad un tasso altissimo. Poi però si è stabilizzato” ha spiegato Page, commentando la ricerca: “Senza perdita di geni sul cromosoma Y del macaco Rhesus e con un solo gene perso sul cromosoma Y umano, è chiaro che l’Y non sta andando da nessuna parte. Il nostro studio semplicemente smantella l’idea di un cromosoma Y in via di estinzione”.
(Credit per la foto: Getty Images)

Neutrini: cosa è successo tra Cern e Gran Sasso? - Wired.it

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Cinque mesi di lavoro attento e meticoloso, alla ricerca di quell’errore, di quel problema che avrebbe mandato in fumo i risultati della loro stessa scoperta, la più sensazionale del 2011: neutrini che viaggiano più veloci della luce. E alla fine, forse, i ricercatori dell’esperimento italiano Opera (Oscillation Project with Emulsion-tRacking Apparatus) nei Laboratori nazionali del Gran Sasso, hanno trovato due possibili errori: un problema nella sincronizzazione degli orologi atomici usati per misurare partenza e arrivo del fascio di neutrini, e uno nello stato del cavo che connette il sistema Gps a una scheda dei computer di Opera.

" Come abbiamo avuto i nostri dubbi all'inizio, li abbiamo ancora. Abbiamo lavorato intensamente per cercare la causa di questa anomalia", ha detto all’ Ansa il fisico Antonio Ereditato dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), coordinatore della collaborazione Opera: " Abbiamo fatto, rifatto e ancora rifatto tutti i test possibili e ogni volta si imparava qualcosa di più. Abbiamo cercato a tappeto, esaminando tutti gli aspetti possibili, e alla fine abbiamo trovato due effetti…nella totale e responsabile trasparenza e onestà - ha detto - presentiamo questi nuovi dati con lo stesso livello di dubbio con cui nel settembre scorso avevamo annunciato l'anomalia nella misura della velocità dei neutrini. Bisogna mantenere la calma perché nemmeno adesso abbiamo la certezza". E per maggio si attendono nuovi test per verificare le ipotesi.

Ma andiamo con ordine:
Era il 23 settembre 2011 quando i ricercatori dell’esperimento Opera del Cern annunciavano di aver riscontrato un’anomalia nella misura della velocità riportata da un fascio di neutrini, lanciati dal laboratorio svizzero verso quello sotto il Gran Sasso. Queste particelle infatti sembravano aver percorso i 730 km di distanza tra i due laboratori a una velocità superiore a quella della luce: di 60 nanosecondi. Dati che avrebbero fatto crollare uno dei pilastri su cui si basa gran parte della fisica moderna: la Teoria della Relatività Ristretta di Einstein secondo la quale nessuna particella dotata di massa può raggiungere una velocità superiore a quella della luce.

Per ottenere questo valore, i fisici del Cern e quelli del Gran Sasso avevano dovuto sincronizzare la misura dei tempi tra i due laboratori e calcolare con alta precisione anche la reale distanza tra la sorgente, a Ginevra, e il rilevatore, nell'Appennino italiano: questa è stata calcolata con un'incertezza di appena 20 centimetri su un percorso di 730 chilometri. Il tempo di volo dei neutrini è invece stato determinato con una precisione di meno di 10 nanosecondi, usando Gps avanzati e orologi atomici. Proprio in questi due passaggi, come vedremo, avrebbero avuto luogo i problemi che invece smentirebbero i risultati di Opera.

La prudenza e le critiche di allora:
Già allora i ricercatori erano cauti, avevano espresso una buona dose di incertezza e avevano effettuato (quasi) tutti i controlli e le verifiche che si potevano realizzare in quel momento. Così, infatti, scrivevano su un articolo pubblicato in pre-stampa su ArXiv per essere sottoposto a una peer review, ovvero all'esame di tutta la comunità scientifica: “ Dopo numerosi e attenti controlli e dopo che le misure sono state effettuate più volte, i dati sembrerebbero consistenti, ma l'impatto che un risultato di questo tipo potrebbe avere sull'intera comunità scientifica ci spinge a continuare la ricerca di eventuali errori sistematici ancora sconosciuti che ne diano una spiegazione più semplice”.

Prudenza ribadita anche da Dario Autiero, ricercatore del Cnrs e collaboratore dello studio: “ Sebbene le nostre misure abbiano una bassa incertezza sistematica e un'elevata accuratezza statistica, e nonostante la fiducia riposta nei nostri risultati sia alta, siamo in attesa di confrontarli con quelli provenienti da altri esperimenti”.

Insomma anche se speravano nel colpaccio, tutti erano pronti a mesi di controlli capillari in casa e fuori. Anche perché i dubbi erano tanti anche in seno allo stesso esperimento: non tutti i numerosi ricercatori di Opera avevano voluto firmare lo studio pubblicato su Arvix, perplessi dagli stessi dubbi che attanagliavano la comunità scientifica.

Le perplessità, come abbiamo già spiegato in un precedente articolo, riguardavano sia quello che questi risultati mettevano in discussione, la teoria di Einstein e la consequenzialità causa-effetto, sia il fatto che i dati ottenuti non erano coerenti e con quello che si sapeva dei neutrini, sia, infine, le modalità dell’esperimento stesso. Già all’epoca, come riportava Ars Technica, alcuni ricercatori avevano individuato tre possibili fonti di errore: la misura del tempo (quello che viene chiamato il tempo di volo dei neutrini), la distanza tra i due laboratori e la possibilità di determinare il momento esatto di partenza del getto delle particelle. Sembrava però che tutte le contromisure fossero state prese.

Per misurare il tempo di volo dei neutrini sono stati usati orologi atomici che possono sbagliare di un secondo su 30 milioni di anni. E le misurazioni sono state fatte da due diverse équipe, una tedesca e una svizzera. Per calcolare con precisione la posizione dei macchinari sotterranei del Gran Sasso, invece, era stato usato, in via del tutto pioneristica, un sofisticato sistema Gps. La terza questione era la più delicata: il momento esatto della creazione del fascio di neutrini è la cosa più difficile da misurare, perché non ci sono rilevatori di neutrini in uscita nei laboratori del Cern e quindi si può calcolare solo indirettamente, come spiegava già allora Rob Plunkett del Fermilab di Batavia al New Scientist.

Gli errori saltati fuori:
“ La prima anomalia, di tipo meccanico, riguarda un problema di trasmissione di un segnale, in particolare quello che sincronizza l'orologio del Gran Sasso con quello del Cern”, spiega Antonio Masiero, direttore della sezione di Padova dell'Infn. Per conoscere gli istanti esatti in cui il fascio di neutrini parte e arriva è infatti necessario che i due strumenti siano perfettamente sincronizzati; questo si fa tramite un Gps. Ed ecco il problema: sembra che il cavo di fibra ottica che mette in comunicazione il Gps con il computer che analizza i dati non mantenga costante i tempi di trasmissione, ma che a volte acceleri. “ Non possiamo sapere come si è comportato il cavo al momento dell'esperimento, ma preoccupa il fatto che l'errore è proprio di quelle decine di nanosecondi in meno rilevate”.

Il secondo problema è legato alla scheda elettronica che registra il momento in cui i neutrini colpiscono il bersaglio sotto il Gran Sasso: “ In questo caso abbiamo un errore che va nel senso opposto”, continua Masiero: “ È come se l'orologio avesse dato un tempo maggiore di quello effettivamente impiegato dai neutrini. Per ora, però, è difficile valutare di quanto potrebbe essere questo errore. I ricercatori ci stanno lavorando: se fosse dello stesso ordine di grandezza dell'altro, si potrebbe pensare a una compensazione, ma è tutto da vedere”.

E ora? Ovviamente continuano i controlli da parte degli stessi ricercatori di Opera, che prima di rilasciare i risultati avevano già ripetuto i test. Prima del riscontro comunque, si era progettato di fare delle nuove verifiche anche in altri tre esperimenti, che si sono già dotati di tutta la strumentazione necessaria. In più si sta studiando la possibilità di fare misure di verifica utilizzando i raggi cosmici.

La prudenza di settembre è addirittura moltiplicata, come si anche evince dalle dichiarazioni a Nature di Caren Hagner, membro dell’esperimento opera dell’Università di Amburgo in Germania dice: “ Per il momento la collaborazione ha deciso di non produrre un resoconto quantitativo, perché dobbiamo ricontrollare e discutere i risultati in modo più approfondita”. Anche la posizione ufficiale del Cern è di attesa: James Gillies, portavoce del Cern, ha confermato i problemi del sistema Gps ma ha ribadito che saranno necessarie nuove misure prima di poter trovare conferme a una qualunque delle teorie. I ricercatori di Opera, infatti, hanno già in programma di ripetere le misure appena un nuovo fascio di neutrini sarà pronto per essere lanciato. E non sono i soli pronti a nuove misure: al Fermilab i membri di Minos continuano a tentare di fare le loro misure indipendenti della velocità dei neutrini, con i primi risultati che dovrebbero arrivare proprio quest’anno. “ Fasci di neutrini sono sparati verso una miniera che si trova a circa 730 km di distanza”, dice Masiero: “ Stanno prendendo i dati e nel giro di qualche mese dovremmo avere i risultati. In ogni caso non va dimenticato che l'esperimento Opera conserva il privilegio di aver raggiunto una grandissima precisione sulla velocità di particelle subatomiche, una tra le migliori al mondo”. E intanto a maggio si eseguiranno nuovi test tra Cern e Gran Sasso. Restiamo in attesa.

De Maria e la a pittura trascendentale | Artribune

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New York, dieci libri per innamorarsi - Libri - Panorama.it

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New York, dieci libri per innamorarsi

Tags: Andy Warhol, città, Column McCann, E.L. Doctorow, I libri della settimana, lista, new-york, Teresa Carpenter, Walter Benjamin Lascia un commento

“Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. 
Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare”.

Così il filosofo tedesco Walter Benjamin spiega la sua teoria del viaggiatore errante. Si sposa perfettamente con New York (di cui era anche un appassionato amante). Città in cui smarrirsi appunto, magari leggendo i libri di chi, prima di noi, l’ha vissuta.

Si può cominciare attingendo ai curiosi (e preziosi) consigli della guida City Secret Manhattan: the essential Insider’s guide in cui artisti, fotografi, designer, politici, scrittori, banchieri riempiono le pagine di questo piccolo (e tascabile) libricino blu per consigliare, quartiere dopo quartiere, angolo dopo angolo, cosa scoprire di inedito in New York City. Un bar, un palazzo, una galleria d’arte, un bistrot, un angolo di pace.

Inedito per noi ma vissuto per loro nella quotidianità di cittadini. Alla ricerca del dettaglio che sfugge al turista della prima ora. Ma anche a chi ama da tempo New York ma non la vive mai da newyorker.

Se avete un animo meno classico ma più pop potete invece decidere di passeggiare da nord a sud di Manhattan facendovi guidare da Andy Wharhol e dalle pagine di Andy Wharol’s New York City: four walks, uptown to downtown. Aprirla e usarla come percorso è un po’ come mettersi a braccetto con l’artista attraverso le case in cui ha vissuto, i club che ha frequantato, i musei, i negozi e i ristoranti preferiti. Accompagnati dai racconti delle persone che incontrava e con cui si intratteneva.
Questa la suddivisione:
- I Upper East Side (oltre East 70th Street)
- II Upper East Side (da East 57th a East 68th Street)
- III Midtown
- IV Downtown (Murray Hill, Chelsea, Rose Hill, Union Square, East Village, Greenwich Village)

Ma a New York, si sa, bisogna stare molto anche con il naso all’insù. E guardare i grattacieli. Un po’ come fa Mario Maffi, professore di Cultura anglo-americana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano ma un appassionato di geografie culturali d’America. Nel suo New York: ritratto di una città racconta il “sopra” dei grattacieli e il “sotto” della metropolitana, girovagando dal Bronx a Buttery Park, perdendosi nei labirinti dei diversi quartieri e riproponendo brani di letterati e scrittori che raccontano storie e ricordi.

Come quelle che, in chiave moderna, si snodano tra le pagine di due volumi: New york stories: the best of the city section of the New York Times e More New York Stories: the best of the city section of the New York Times. Si tratta di raccolte di articoli dalla sezione “City” del quotidiano scelti e messi insieme dalla giornalista Consance Rosenblum, responsabile della rubrica.

Due esempi: c’è la giovane Katherine Mash che racconta ironicamente come la città non sia certo adatta ai claustrofobici. Basta entrare negli ascensori dei grandi magazzini Macy’s per rendersene conto. Oppure Suzanne Vega, 43 anni, sposata, divorziata che snocciola la sua storia di “donna che si rimette in gioco” comprando la licenza di tassista nella città dove il traffico (e i pericoli) sono compagni di giornata.

Un’indicazione, invece, per i lettori più raffinati (e perché no, più “snob”): le pagine di New York Diaries: 1609 to 2009. Il premio pulitzer Teresa Carpenter ha studiato montagne di archivi storici per riportare alla luce chi ha fatto cosa ogni giorno dell’anno, lungo tre secoli, a New York.

E allora ecco Mark Twain, che il 2 febbraio del 1867 dice: “My experience is that a man cannot go anywhere in New York in an hour. The distances are too great – you must have another day to it. If you have got six things to do, you have got to take six days to do them in” (La mia esperienza mi dice che un uomo non può fare il giro di New York in un’ora. Le distanze sono troppo vaste. Servono almeno due giorni. Se hai sei cose da fare devi dedicarvi sei giorni).

Oppure il giornalista Edward Robb Ellis, che il 22 maggio 1947 afferma: “Today I arrived by train in New York City, which I’d never seen before, walked through the grandeur of Grand Central Terminal, stepped outside, got my first look at the city and instantly fell in love with it. Silently, inside myself, I yelled: I should have been born here!” (Oggi sono arrivato a New York in treno, cosa che non avevo mai fatto prima, ho camminato nella grandeur della stazione Grand Central, sono uscito fuori, ho dato un primo sguardo alla città e l’ho amata subito. Silenziosamente, dentro di me, mi sono detto: Dovevo nascere qui!)

Una volta che siete vissuti a New York per qualche tempo 
e la città è diventata casa vostra, non c’è altro posto altrettanto bello.
Qui si concentra tutto, popolazione, arte, teatro, letteratura, editoria, 
import, affari, assassinii, aggressioni di strada, lusso, povertà. 
è tutto di tutto.
Va avanti tutta notte, è instancabile.
- John Steinbeck –

Già. Nascere a New York e viverci. Con i suoi colori, i suoi bianchi e nero e i suoi contrasti. Come si racconta nei tre romanzi che vi indichiamo, una lettura straordinaria (in tre declinazioni diverse) prima o durante un viaggio nella Grande Mela.

Aprire le pagine di Open City di Teju Cole (nigeriano trasferitosi negli Usa nel 1992) significa immergersi in una New York piena di duri contrasti. È la storia di un giovane psichiatra che vive a Manhattan nel 2006 e che attraverso le sue lunghe passeggiate nella città analizza i comportamenti della gente, riflette sui rapporti tra le persone e in particolar modo su quello (da poco concluso) con la sua fidanzata in un intreccio tra presente e passato.

Homer and Langley, invece, è la storia di due fratelli ispirata a un fatto di cronaca della New York del primo novecento e rivisitata da E.L. Doctorow. Homer, fratello cieco, e Langley tornato semifolle dalla Grande Guerra, sono due rampolli di una famiglia benestante che nel corso dei decenni trasformano il loro palazzo in un delirante ricettacolo di ciarpame dove vivranno come reclusi fino a rimanere sepolti sotto le tonnellate di spazzatura da loro stessi accumulata. Sono la metafora di un mondo e lo specchio di un lungo periodo della storia americana.

Ma è con Questo bacio vada al mondo intero di Column McCann che New York si tinge di un fascino ineffabile. Parte da una storia vera. Per arricchirsi di immaginario.

È il 1974. Un uomo è lassù, in cima alle torri Gemelle e cammina su un filo teso tra l’una e l’altra. Sotto, la città si ferma a guardare. Con il naso all’insù. Mentre ricchi, poveri, sacerdoti, genitori orfani di figli morti in Vietman, prostitute, vivono le loro vite dal Bronx all’Upper east side. Intrecciate tra loro. Alla ricerca di quell’equilibrio che, lassù, il piccolo uomo sul filo sembra aver trovato.

P.s. non dimenticatevi di rilassarvi con le meravigliose foto di New York 365 days. 740 pagine di scatti selezionati, anche questa volta, dall’archivio del The New York Times. Meravigliosi, inediti, pieni di luci, di bianchi e neri. La grande mela vista con tutti gli stati d’animo. E tutte le emozioni.

Donne, basta fare le sante!| Liguria | cultura| Il SecoloXIX

cultura 23 febbraio 2012

Donne, basta fare le sante!

Elisabetta Pagani

Un momento della manifestazione del movimento “Se non ora, quando?”

Un momento della manifestazione del movimento “Se non ora, quando?”

«Ma possibile che le femministe di oggi siano tutte sante?» si domanda, divertita e insieme serissima, Valeria Ottonelli, docente di Filosofia politica ed etica pubblica all’università di Genova. Se lo domanda prima di sganciare la bomba che le farà arrabbiare tutte, o quasi, queste donne che manifestano, e che esattamente un anno fa, nelle piazze d’Italia, gridavano: «Siamo noi le vere donne, non le Ruby, e siamo un milione». Facile che se la prendano - sul web già se ne discute - leggendo il suo ultimo libro, “La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista” (il melangolo, 128 pagine, 12 euro), in libreria dal primo marzo, in cui le apostrofa senza mezzi termini come «tradizionaliste, familiste, e bacchettone, perché no».

«È un libro contro il femminismo moralista che ha preso la scena in questi ultimi tempi» spiega Ottonelli «che si arroga il diritto di rappresentare le “vere donne” e le incastra nell’immagine quasi sacra di Madonne perfette che lavorano, studiano e crescono figli». Quello che critica la studiosa è che la battaglia non sia più un fronte comune, ma soprattutto che si basi sulla morale e non su un’idea politica: «Prevale una fastidiosa idea del sacrificio, un moralismo davvero pericoloso che ci schiaccia in un dualismo che non esiste: di qua la folla esemplare che protesta, le sante, di là quelle che finiscono sui giornali, che si vendono, le puttane».

Nessun discorso generico, Ottonelli, che si considera femminista, fa nomi e cognomi: il movimento “Se non ora, quando?” - nato per protestare contro l’immagine berlusconiana della donna - che con il suo appello ci divide in “donne perbene e permale”, ma anche Concita De Gregorio o Lorella Zanardo, autrice del documentario, e poi del libro omonimo, “Il corpo delle donne”, sulla mercificazione del corpo femminile e sulla chirurgia estetica. «Ci attaccano? Ormai è lo sport nazionale delle donne che non scendono in piazza e di quelle che vogliono farsi pubblicità» rispondono piccate le attiviste di “Se non ora, quando?”. Che a passare per moraliste e bacchettone non ci stanno: «Non diciamo a nessuna di essere come noi» premette una delle fondatrici, Licia Conte «però certo non si può parlare di diritti delle donne prescindendo dall’immagine che certa televisione e certa politica veicolano. Noi siamo diverse. E aperte al dialogo, Ottonelli venga a confrontarsi con noi».

Sugli obiettivi, del resto, sono d’accordo. D’altronde in Italia siamo lontani anni luce dalla parità di genere: solo il 46,1% delle donne lavora, il 12% in meno rispetto alla media europea, calcola l’Istat. E si stima che siano 800.000 le neomamma che hanno perso il lavoro: sei su dieci senza mai più ritrovarlo. Secondo Eurostat spetta sempre all’Italia il primato del lavoro domestico, 8 ore al giorno, e ovviamente la maggiore differenza nell’impegno fra uomo e donna. «Tutti temi concreti che le nuove femministe» attacca Ottonelli «non affrontano. Perché pensano che prima si debba ripristinare l’etica. E invece io dico no: no alle donne sante, impegnate, colte, che si smazzano il lavoro familiare. Perché non esistono. E no a estromettere le altre, le veline o chi per loro, le non perfette insomma. La battaglia che deve essere comune e deve prescindere dal livello di moralità di ciascuna di noi».

© Riproduzione riservata

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GabryGabry   
23/02/2012 19:03

@Riccardo R, esiste lo sciocco che per fare dispetto alla moglie si taglia gli zebedei.
Non credo che l'astinenza femminile sia la soluzione, conosco donne molto più assatanate degli uomini, forse questo luogo comune del maschio sempre alla caccia ha offuscato la realtà di quello che realmente le donne pensano e fanno. il desiderio è bivalente e non unilaterale.
Loro sono capaci a farsi desiderare noi meno,cambiando ne vedremo delle belle altro che astinenza.
Più che la fam potè il digiuno...

Riccardo RevilantRiccardo Revilant   
23/02/2012 14:01

Bhe, che dire...fatevi un po di autoanalisi...perche' se una come la Lei colpisce le donne che vogliono avere figli, .capite bene che vi scavate la fossa da sole.
Non volete la donna oggetto ma molte di voi speculano e vivono (anche molto bene direi) proprio su questo.
Non volete al governo maschilisti ma li votate.
Eppure avete un'arma gia' usata in passato efficacemente...l'ASTINENZA.
L'uomo alla fine e' un animale come tutti, vedrete che in questo modo otterrete di piu' ... :)


  

La metafisica è finita filosofiamo in pace- LASTAMPA.it

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La Conclusione di Vattimo a un volume di saggi in suo onore. Una "questione di metodo" contro ogni pretesa di dominio
GIANNI VATTIMO
Un problema preliminare, con cui la filosofia contemporanea non può non fare i conti se vuole esercitarsi ancora come filosofia, e non solo come saggistica o come industriosità storiografica sul pensiero del passato, né ridursi a pura disciplina ausiliaria delle scienze positive (come epistemologia, metodologia, logica), è quello posto dalla critica radicale della metafisica. Bisogna sottolineare qui l’aggettivo «radicale», perché solo questo tipo di critica della metafisica costituisce davvero un problema preliminare ineludibile per ogni discorso filosofico consapevole della propria responsabilità. Non sono radicali quelle forme di critica della metafisica che, più o meno esplicitamente, si limitano a considerarla come un punto di vista filosofico fra altri, una scuola o corrente, che per qualche ragione filosoficamente argomentata bisognerebbe oggi abbandonare. […]

La critica della metafisica è radicale, e si presenta come un problema preliminare ineludibile, una vera e propria «questione di metodo», là dove si formula in modo da non colpire solo determinati modi di far filosofia o determinati contenuti, ma la stessa possibilità della filosofia come tale, come discorso caratterizzato da un suo statuto logico e anche, inseparabilmente, sociale. Il maestro di questa critica radicale della metafisica è Nietzsche. Secondo lui, la filosofia si è formata e sviluppata come ricerca di un «mondo vero» che potesse fare da fondamento rassicurante alla incerta mutevolezza del mondo apparente. Questo mondo vero è stato di volta in volta identificato con le idee platoniche, con l’aldilà cristiano, con l’ a priori kantiano, con l’inconoscibile dei positivisti, finché la stessa logica che aveva mosso tutte queste trasformazioni - il bisogno di cercare un mondo vero autenticamente tale, capace di resistere alle critiche, di «fondare» - ha condotto a riconoscere la stessa idea di verità come una favola, una finzione utile in determinate condizioni di esistenza; tali condizioni sono venute meno, e questo fatto si esprime nella scoperta della verità come finzione.

Il problema che Nietzsche vede aprirsi a questo punto, in un mondo dove anche l’atteggiamento smascherante è stato smascherato, è quello del nichilismo: dobbiamo davvero pensare che il destino del pensiero, una volta scoperto il carattere non originario, ma divenuto e «funzionale», della stessa credenza nel valore della verità, o della credenza nel fondamento, sia quello di installarsi senza illusioni, come un «esprit fort», nel mondo della lotta di tutti contro tutti, nel quale i «deboli periscono» e si afferma solo la forza? O non accadrà piuttosto, come Nietzsche ipotizza alla fine del lungo frammento sul Nichilismo europeo (estate 1887), che in questo ambito siano destinati a trionfare piuttosto «i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso e di assurdità»?

Nietzsche non sviluppa molto di più questa allusione ai «più moderati», ma è probabile che, come appare dai suoi appunti degli ultimi anni (gli stessi da cui proviene questo frammento sul nichilismo), l’uomo più moderato sia per lui l’artista, colui che sa sperimentare con una libertà che gli deriva, in definitiva, dall’aver superato anche l’interesse alla sopravvivenza. […]

La questione circa la fine della metafisica, la sua improseguibilità, non è ineludibile solo o principalmente in quanto si riesca a dimostrare che essa costituisce il movente, esplicito o implicito, delle correnti principali della filosofia novecentesca; ma soprattutto perché pone in discussione la stessa possibilità di continuare a filosofare. Ora, questa possibilità non è minacciata tanto dalla scoperta teoretica di altri metodi, altri tipi di discorso, altre fonti di verità ricorrendo alle quali si potrebbe fare a meno di filosofare e di argomentare metafisicamente. Ciò che getta una luce di sospetto sulla filosofia come tale e su ogni discorso che voglia riprenderne su piani e con metodi diversi le procedure di «fondazione», di afferramento di strutture originarie, principi, evidenze prime e cogenti, è la smascherata connessione che queste procedure di fondazione intrattengono con il dominio e la violenza.

Il riferimento a questa connessione, sebbene possa apparire accidentale, è invece quello che, preso sul serio, rende davvero radicale la critica della metafisica; senza di esso, tutto si riduce a sostituire semplicemente alle pretese verità metafisiche altre «verità» che, in mancanza di una dissoluzione critica radicale della stessa nozione di verità, finiscono per riproporsi come istanze di fondazione. È difficile, come pure si sarebbe tentati di fare richiamandosi a Hegel, opporre a una tale «questione di metodo» l’invito a provare a nuotare gettandosi in acqua, cioè a cominciare di fatto a costruire argomentazioni filosofiche cercando se non sia possibile, contro ogni eccesso di sospettosità, individuare alcune certezze sia pure relativamente «ultime» e generalmente condivise. Tuttavia l’invito a gettarsi in acqua, l’invito a filosofare,non può provenire dal nulla; esso si richiama necessariamente all’esistenza di una tradizione, di un linguaggio, di un metodo. Ma le eredità che riceviamo da questa tradizione non sono tutte equivalenti: tra di esse c’è l’annuncio nietzschiano della morte di Dio, la sua «esperienza» più che teoria, della fine della metafisica e, con essa, della filosofia.

Proprio se si vuole accettare la responsabilità che l’eredità della filosofia del passato ci impone, non si può non prendere sul serio anzitutto la questione preliminare di questa «esperienza». Proprio la fedeltà alla filosofia è ciò che impone di non eludere, anzitutto, la questione della sua negazione radicale; questione che, come si è visto, è indistricabilmente connessa a quella della violenza.

giovedì 23 febbraio 2012

La prigione del web e i limiti della semantica | Farsi leggere

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L’immagine si è inserita perfettamente come esempio in questo articolo che stavo scrivendo.

Per alcuni, infatti, il mondo che vediamo attraverso internet è filtrato secondo criteri che possono diventare vere e proprie gabbie, che rimangono invisibili finché non si verifica una incongruenza come questa. Gli algoritmi di Google e di Facebook tendono sempre più a mostrarci ciò che ritengono ci interessi e ad escludere il resto, ignorando però che la realtà può offrire molte più sfumature: ad esempio, se parli spesso di Berlusconi, non significa che tu sia del PDL. Oppure, citiamo il caso più sottile di Eli Parisier, autore di The Filter Bubble, progressista ma sempre interessato alle idee dei conservatori, che vede scomparire dalla sua bacheca di Facebook tutti i risultati di questi ultimi (qui l’intervento completo al TED).

Il problema, in realtà, sono i nostri limiti mentali e le macchine non fanno che riflettere i limiti dei loro creatori. Due sono i difetti fondamentali degli algoritmi e degli uomini: la tendenza a polarizzare le esperienze (bene/male, giusto/sbagliato, mi piace/non mi piace) e l’attaccamento al guscio, alla lettera del messaggio, ovvero al suo contenuto semantico, come se il significato delle frasi dicesse tutto, quando anche un “ti adoro” può essere l’espressione della più perfida ironia.

Questi difetti non escludono l’arbitrarietà dei risultati, come forse vorrebbe almeno Google nel tentativo di fornirci risultati sempre più pertinenti, ma alimentano la casualità sia delle impressioni di cui ci nutriamo online, sia delle opinioni che ci formiamo sui più vari aspetti della vita. (Facciamoci caso: anche l’accoppiata online/offline è una polarizzazione del tutto arbitraria, come se fossimo qualcos’altro mentre siamo connessi a internet).

Il modo in cui i social network tendono a registrare i nostri gusti si avvicina sempre di più all’estorsione sull’onda del momento. Fino a qualche tempo fa esisteva il pulsante “condividi su Facebook”, con il quale si poteva condividere sul proprio profilo un contenuto aggiungendovi un commento: magari anche per criticare un articolo che tuttavia si riteneva degno di far leggere. Oggi Facebook sta togliendo il supporto a quel pulsante in favore del “mi piace”, il quale registra semplicemente l’apprezzamento, spesso invisibile nella bacheca del suo stesso autore, ma visibile ai suoi ‘amici’ a Facebook stesso, che lo utilizzerà per selezionare i contenuti da mostrarci.

La stessa logica è sottesa ai clic sul pulsante ‘+1′, di cui Google tiene conto nel mostrare i risultati delle ricerche per noi e per i nostri contatti. Ancora più ‘malandrine’ sono poi le applicazioni per Facebook come quella del Guardian, che condivide automaticamente sulla bacheca ciò che l’utente sta semplicemente leggendo (già: i dati personali e la pubblicità inconsapevole dell’utente è la vera moneta con cui pagare l’informazione oggi).

In questo modo, ci avviciniamo sempre di più ai nostri simili (o peggio: a ciò che qualcuno ritiene simile a noi secondo criteri discutibili), escludendo sempre ciò che sta al di fuori delle nostre cerchie: non a caso Massimo Mantellini cita lo studio del premio nobel per l’economia Thomas Shelling, secondo cui la preferenza ad avere vicini di casa simili produce una città completamente segregata. Con la differenza che, mentre Shelling parlava di bianchi e neri, i censori ed editori di internet selezionano ciò che vedremo in base all’interpretazione di un ‘mi piace’, ammesso e non concesso che questo segnale significhi e voglia dire qualcosa.

Ma non ci sono motivazioni solamente etiche dietro a queste obiezioni. Sono anche pratiche, o meglio pragmatiche. La polarizzazione e la focalizzazione sugli aspetti semantici dimostra i suoi limiti anche negli ambiti di intelligence e di reputation management. Non ne è esente nemmeno la Visible Technologies, società di monitoraggio web partecipata dalla CIA, capace di scandagliare milioni di siti e social network ogni giorno, che classifica il sentiment in quattro categorie monodimensionali: positive, negative, mixed e neutral. A giudicare dai dati su diversi brand che fornisce nella demo, l’elevatissimo dato di risultati classificati come neutrali (minimo il 90%) sembra indicare semplicemente l’incapacità di interpretarne il valore.

Purtroppo questi criteri partono da postulati che sono tutt’altro che certi: presuppongono che chi scrive abbia la padronanza sufficiente per esprimere adeguatamente il proprio pensiero, che questo pensiero sia contenuto interamente nella formulazione linguistica, che sia polarizzabile e soprattutto che questo pensiero esista. Lo sa bene Paul Chambers, che due anni fa si ritrovò in carcere dopo aver twittato: “Avete poco più di una settimana per mettere tutto a posto, altrimenti faccio saltare in aria l’areporto!”.

Perché se il web si sta trasformando sempre di più in conversazione, allora non basta affidarsi a software capaci di interpretare il significato di una parola o di una frase in qualsiasi contesto e darne un’interpretazione polarizzata. Occorre interpretarne, oltre al contenuto esplicito, le implicazioni, valutare l’effetto concreto della parola. Ad esempio: un intervento su Facebook con decine di commenti è in sé dimostrazione di influenza? Dipende: quanti di questi commenti sono pertinenti all’intervento e quanti invece sviano su argomenti secondari o non-pertinenti? Qual è, in altre parole, il grado di cooperazione reale ottenuta? Quali sono gli atteggiamenti suscitati?

Per fare questo, però, bisogna compiere il salto dall’analisi semantica e dal linguaggio binario alla ben più umana pragmatica (cioè: il linguaggio come azione), alla quale non esistono ancora sistemi operativi artificiali, né molte intelligenze naturali, pronti ad adeguarsi.

Expo, tecnologia e hi-tech del futuro per i 20 milioni di visitatori - Cronaca - La Presse

Foto: LaPresse

Milano, 23 feb. (LaPresse) - Pensare oggi con le tecnologie del 2020 per usarle nel 2015. E' questa la missione che gli organizzatori dell'Expo di Milano si sono dati per rendere questo evento un'esperienza di "realtà aumentata". Per riuscirci il programma d'investimento lanciato è da 350 milioni di euro tutti da ottenere dai privati, e 120 milioni sono già stati reperiti grazie a Telecom, Accenture e Cisco, leader nelle soluzioni informatiche di rete che oggi ha presentato il suo piano. Entro marzo si saprà chi sarà il partner energetico di Expo 2015, di sicuro non A2A. Poi ci vorrà uno sviluppatore web ed il fornitore di un terminale multimediale ad hoc per tutti i 20 milioni di visitatori attesi nei 189 giorni dell'evento.

A sentire Valerio Zingarelli, responsabile di questa parte del progetto dell'Expo, c'è da stropicciarsi gli occhi, letteralmente. Difatti tutti i visitatori riceveranno degli occhiali speciali, sui cui saranno proiettate migliaia di informazioni a seconda degli interessi che il visitatore stesso avrà fornito all'organizzazione. "L'obiettivo è che ognuno viva una sua esperienza individuale" ha spiegato il presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni. Tutto ciò sarà realizzato con il biglietto elettronico intelligente, che eviterà anche le code all'ingresso grazie ad un riconoscimento biometrico del visitatore che abbia fornito i suoi dati. Così ad esempio davanti al padiglione del Pakistan, ultimo dei 73 Paesi che hanno già aderito, il sistema in automatico fornirà sugli occhialini speciali informazioni che interessano quel singolo visitatore. Ma anche prima, e anche lontano da Milano si potrà entrare in contatto con l'Expo, creando un profilo on line sul sito, una specie di social network, su cui condividere informazioni e dati. Anche camminando per strada però l'Expo interagirà con milioni di persone, grazie a pannelli multimediali posizionati in tutta la Lombardia, ma anche dai manifesti grazie a Data Matrix da fotografare con il telefonino. Previsti anche dei grandi wall touch screen ma in 3D, un'autentica rivoluzione.

L'obiettivo è che un miliardo di persone siano coinvolte in questa cyber-Expo, ma andare di persona a Milano nel 2015 sarà sicuramente un'esperienza più emozionante. Oltre agli occhialini, ai visitatori sarà infatti fornito un terminale multimediale ad hoc, con i contenuti visibili e le informazioni sui singoli padiglioni, che saranno ancora più ricche. Non solo, questi terminali consentiranno anche di visitare l'Expo a persone disabili, ad esempio non udenti e non vedenti. Sarà poi fornito anche un braccialetto che fornirà ad un equipe medica in remoto la situazione clinica di ognuno dei 130mila visitatori che ogni giorno affollerranno l'Expo. Attraverso l'Health presence di Cisco si potrà così interagire e farsi curare dai medici in remoto dai principali ospedali lombardi.

Tutta questa tecnologia aiuterà anche ad aumentare la sicurezza dentro e fuori l'Expo grazie a body scanner, crowded behavior e molto altro che non è stato svelato. Spazio oltre che ai colossi mondiali dell'informatica anche alle piccole start up lombarde e italiane che propongano progetti interessanti. Non solo, dentro l'Expo ci sarà anche un 'Expo lab' dove tutti i visitatori potranno portare i loro progetti e confrontarsi con esperti di tutto il mondo. Per divertirsi poi, durante l'Expo si svolgeranno i mondiali dei giochi dei social network. Tutto il sistema integrato di soluzioni "per una rete senza confini" (Borderless Network) sarà progettato da Cisco Italia. L'obiettivo è che tutto ciò avvenga anche con un basso impatto ambientale, oltre a rimanere come eredità al termine della manifestazione.

"La città del futuro, nel suo insieme, sarà una comunità intelligente e interconnessa, basata su forme di comunicazione e collaborazione digitale in grado di trasformare radicalmente il modo in cui si crea, si sviluppa, si abita un ambiente urbano, mettendo al centro la persona. Expo 2015 è un palcoscenico eccezionale per le tecnologie che permettono di creare modelli urbanistici innovativi, e nostro obiettivo è far si che attraverso l'esperienza della visita alla manifestazione si possano comprendere pienamente le potenzialità di soluzioni e strumenti che sono già stati applicati, con il nostro contributo, in metropoli e grandi manifestazioni di tutto il mondo" ha dichiarato David Bevilacqua, a.d. di Cisco Italia e viceresidente Cisco Corporate. "Grazie alle soluzioni d'avanguardia fornite da Cisco e dagli altri partner tecnologici - ha spiegato l'a.d. di Expo 2015, Giuseppe Sala - il sito espositivo di Expo Milano 2015 diventerà un modello di città digitale, replicabile in altri contesti. L'innovazione accompagnerà in modo intelligente e facile i visitatori in ogni momento, facendo vivere loro un'esperienza unica".

mercoledì 22 febbraio 2012

«Combatto il tumore e oggi mi laureo» | Alto Adige

«Combatto il tumore e oggi mi laureo»

Umberta Savazzi: «Realizzo il mio sogno, la vita è meravigliosa e va vissuta a pieno»

    di Valeria Frangipane BOLZANO. «Ho il cancro e mi hanno dato due mesi di vita ma questa mattina mi laureo in sociologia a Trento. Studiare mi ha dato una gioia immensa, mi ha completato, aiutato a pensare ad altro ed a sopportare la fatica ed il dolore della malattia. Comunque sia non mi faccio sconfiggere».
    Bella donna Umberta Savazzi, 60 anni che non vedi e due figli grandi - Michele e Gianluca - avuti da Marco Melani, sposato tre anni fa. E bella anche la sua vita fino al 2010.

    «Era da alcuni mesi che non mi sentivo bene, che faticavo ad alzare le braccia. Ricordo ancora quando i medici mi hanno detto al telefono cosa avevo. Ero seduta sul divano, mi sono stretta la testa tra le mani ed ho pensato... adesso che faccio».
    Già che si fa quando il mondo ti crolla addosso.
    «Non lo sai cosa farai. Ho pensato ai miei figli, a mio fratello Lorenzo ed all'università. Mi sono aggrappata a questo e posso dire di essere felice».
    Perché tre anni prima si era iscritta all'università?
    «Perché l'azienda dove lavoravo aveva chiuso e mi ero trovata sola a casa con i ragazzi grandi senza sapere come passare le giornate. Non avevo voglia di proporre solo torte e biscottini e volevo avere anch'io qualcosa da raccontare a Marco. Volevo vivere, far andare la testa, farmi sorprendere, farmi incuriosire ed afferrare un sogno che da ragazza non avevo potuto permettermi. E ho detto perché no!».
    E com'è andata?
    «Benissimo. Ho fatto la studentessa a tutto tondo. Treno, abbonamento, mensa, l

    ezioni, esami. Quando arrivavo in stazione a Trento vedevo il fiume di gente di tutte le età che andava di corsa, il cuore mi si riempiva. Che bello pensavo, sentivo la vita in movimento, mai statica, mai ferma, mai bloccata».
    E gli esami?
    «Ho fatto fatica ma li ho fatti tutti e 26 e oggi sono qui. Matematica e inglese mi hanno fatto penare».
    Quando nel 2010 ha saputo della malattia ha pensato di mollare?
    «Non si molla un sogno, se lo fai tradisci te stesso. Siccome la chemioterapia e la radioterapia insieme ai farmaci mi abbattevano, andavo a letto e mettevo la sveglia alle 2 quando i medicinali non facevano effetto per riuscire a studiare fino a mattina. È stata durissima ma i libri mi hanno aperto orizzonti nuovi, mi hanno distratto, fatto concentrare su qualcos'altro e dato una disciplina. Se hai un esame da preparare ed una data da rispettare devi saperti organizzare, non puoi permetterti di farti sorprendere dallo sconforto».
    Cosa le ha insegnato la malattia e cosa lo studio?
    «La malattia è stata una grande lezione di vita, mi ha in parte cambiato e fatto vedere la realtà da un altro punto di vista. Non mi chiedo più da dove veniamo e dove andiamo, vivo e basta e oggi posso dire che la vita è bella. Certo, se dalla malattia si guarisce è un'altra cosa. Lo studio è stato fondamentale, una sferzata di vita che ho divorato. Ero affamata, volevo imparare e mettere dentro quel che ritenevo mi fosse stato negato e non mi sono persa nulla».
    I professori le hanno fatto qualche sconto per la malattia?
    «No, nessuno lo sapeva. Quando facevo la chemio e andavo agli esami col foulard perché avevo perso i capelli magari qualcuno ci avrà anche pensato ma è anche possibile che abbiano preso il fazzoletto per lo strano vezzo di una signora un po' originale».
    Lei crede di aver qualcosa da insegnare a qualcuno?
    «Per carità no. La malattia mi ha insegnato anche a perdere degli amici che hanno avuto paura del dolore e si sono allontanati ed a farmi avvicinare da chi invece ritenevo fosse solo un conoscente».
    La fede l'ha aiutata?
    «No. Se esiste il paradiso non ci voglio finire, deve essere noiosissimo. Dimenticavo ho un altro progetto, la scuola di cucina Alma di Parma. Marco mi dice sempre "Umberta, ma quando finirai di stupirci"».

    © RIPRODUZIONE RISERVATA

    22 febbraio 2012

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    PINKCLOUD.DK

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    Come riutilizzare un vecchio silo un tempo impiegato per contenere gas e petrolio? Trasformandolo in abitazioni completamente green. Ci ha pensato lo studio di design e architettura PinkCloud.dk di Berlino che ha provato a disegnare la casa di un futuro in cui gli idrocarburi saranno una fonte energetica obsoleta e abbandonata e le relative infrastrutture, spazi vuoti e inutilizzati. Quando e se mai abbandoneremo il petrolio dovremo pensare a come riutilizzare questi enormi contenitori. Pechè non trasformarle in case in grado di gioviare all'ambiente?